Bisogna dirlo: anche a mettercela tutta, il nostro governo proprio non riesce a liberarsi della camicia di forza di una visione arcaica e inflessibilmente rancorosa e vendicativa della pena, che non conosce deroghe, fosse anche solo attenuative e flessibilizzanti, neppure in situazioni straordinariamente calamitose, come quella che ha investito il Paese e che ha già determinato la sospensione del corso normale della vita sociale e la più imponente limitazione di massa dei diritti fondamentali conosciuta dalla storia repubblicana.
A confermarlo, in termini francamente imbarazzanti, è – come sottolineato dai più – l’ineffabile scelta di legare il beneficio penitenziario della detenzione domiciliare alla disponibilità dei dispositivi elettronici di controllo (alias braccialetti), di cui è nota (e dovrebbe esserlo anche nei luoghi delle decisioni di governo) una disponibilità in larga misura insufficiente finanche per le ordinarie esigenze di gestione applicativa delle misure cautelari.
La manifesta inadeguatezza della scelta ha penosamente immiserito la qualità della risposta politica a una vicenda – quella del sovraffollamento carcerario e della esplosività del connesso rischio epidemico – che fa impallidire l’ethos dello Stato costituzionale che, non a caso, dedica all’incolumità fisica e morale del detenuto (a qualsiasi titolo) le forme più intransigenti di tutela (art. 13, comma 4). Si rammenta troppo poco che l’unico obbligo espresso di ricorso alla sanzione penale che la Costituzione pone a carico del legislatore riguarda le condotte istituzionali violente in danno dei detenuti: segno che la condizione di vittima del detenuto integra il supremo dis-valore nella logica costituente dello Stato di diritto, nel cui patrimonio genetico primeggiano le istanze di protezione dell’habeas corpus.
Oggi, le condizioni di vita all’interno dei penitenziari segnalano una inadeguatezza strutturale a garantire elementari condizioni di rispetto per le esigenze di difesa dei beni biofisici dei detenuti, trasformando la pena nel rovescio simmetrico di quella offerta di risocializzazione che dovrebbe farne oggetto di una prestazione virtuosa dello Stato costituzionale. Una situazione così gravemente eccezionale meriterebbe di essere affrontata e gestita col ricorso al più classico e tradizionale degli strumenti storicamente utilizzati per riportare a normalità di funzionamento le istituzioni della giustizia penale, vale a dire una misura di clemenza generale.
Essa avrebbe il merito di deflazionare la popolazione detenuta con una decisione che vedrebbe di nuovo protagonista la politica. Non è un caso che la prospettiva del ricorso a un provvedimento di remissione sanzionatoria (amnistia e/o indulto) – dopo esser stata affacciata come la più naturale soluzione del problema – sia stata d’un colpo accantonata in coincidenza con la fuoriuscita del parlamento dalla gestione dell’emergenza sanitaria. Invocare un provvedimento di clemenza riveste allora anche il significato civile dell’appello alla normalità costituzionale e alla sua pretesa di affidare le decisioni in tema di istituzioni e giustizia al confronto parlamentare.
Oltre a corrispondere a un’esigenza di rivitalizzazione dello Stato legislativo di diritto, una discussione d’assemblea sulle questioni coinvolte in una decisione di clemenza collettiva porterebbe allo scoperto unità e divisioni sulle idee di fondo di un’autentica cultura costituzionale dei diritti e, in particolare, su quel che resta della lezione di solidarietà e di umanità che (dovrebbe) trasmette(rci) la disposizione sulla funzione rieducativa della pena e sul divieto di trattamenti che offendono il senso profondo della dignità.
Consentirebbe di conoscere il pensiero del nostro Parlamento sulla realtà carceraria del Paese, verificando se per il nostro legislatore costituisca una situazione compatibile con gli standard, costituzionali e convenzionali, di tutela dei diritti umani e se ne rappresenti una flagrante violazione; e se, per il futuro, esso non ritenga che occorra voltare pagina, magari riprendendo i risultati del lavoro compiuto negli Stati generali dell’esecuzione durante la scorsa legislatura. In questo caso, il varo di una misura di clemenza generale – oltre alla portata interruttiva di una situazione di intollerabile illegalismo costituzionale – avrebbe il significato di anticipare in parte gli effetti di una futura riforma, sia pure abbozzata solo nelle sue direttrici di fondo.
Insomma, dobbiamo essere tutti consapevoli che, nella terribile esperienza che stiamo vivendo, in gioco non è solo la salute delle persone, ma anche quella del modello di regolazione politica della convivenza consegnatoci dal cammino giuridico e istituzionale della Modernità.
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