Green pass e sindacati
Landini, che scivolone sul green pass: se il leader della Cgil sta con i lavoratori molli i no-vax
Direbbe Polonio, il cortigiano del Principe Amleto, che anche nella follia occorrerebbero una logica e un metodo. Altrimenti l’unico rimedio è la camicia di forza o il Tso. Ammetto che non riesco a capacitarmi della guerra che i nuovi gilet gialli della sanità hanno dichiarato al green pass scomodando tutti gli “ismi” malefici in voga nel Secolo breve. Chi indossa la stella gialla in questa circostanza dovrebbe vergognarsi perché è il suo cieco furore, privo di ogni razionalità, ad evocare la Shoah, quando venivano individuate negli ebrei quelle minacce montate ad arte ai fini della persecuzione e dello sterminio.
Se i nazisti avessero avuto l’onestà di ragionare, non avrebbero trovato un solo motivo che giustificasse il loro odio contro gli appartenenti a una religione; la stessa considerazione varrebbe oggi per l’ostilità preconcetta al vaccino. Anche i filosofi diventano “terrapiattisti” quando intendono giustificare la “renitenza”. Scusate: ma c’è una sostanziale differenza tra quanto stava scritto sui “Protocolli dei Savi di Sion” e ciò che viaggia oggi sui social con riguardo alla storia del microchip che verrebbe inserito, col pretesto della vaccinazione, per tenere sotto controllo le persone? Ma ciò che più indigna è l’invocazione dei diritti della persona e della libertà dell’individuo, fino a paragonare la sterilizzazione forzata degli inabili e dei dementi che purtroppo, nel secolo scorso, non è avvenuta soltanto nella Germania nazista, ma anche in Paesi democratici.
Il green pass non impone alcun obbligo, ma è un requisito necessario per poter accedere in certi luoghi o essere ammessi allo svolgimento di alcune attività, insieme con altre persone. La mobilità è certamente un diritto importante nel mondo di oggi. Questa possibilità (con appresso il turismo) è meglio garantita da un passepartout di carattere internazionale che attesti una condizione di relativa immunità della persona che viaggia oppure da regimi di quarantena in entrata e in uscita? Nei 100 giorni di lockdown duro, quando le restrizioni provocavano un crollo del Pil, noi non eravamo neppure liberi di andare a messa, perché le chiese erano chiuse, di sposarci persino di morire circondati da amici e famigliari ai quali era proibito venire al funerale. I runner rischiavano il tiro dei cecchini; era in vigore il coprifuoco e gli elicotteri della Polizia e dei Carabinieri volavano come avvoltoi, di notte, sulle città deserte per indicare alle pattuglie a terra eventuali assembramenti. I locali pubblici erano chiusi.
Le persone erano confinate nei comuni in cui risiedevano nonostante la loro dimensione. I nonni non potevano vedere i nipoti; solo un’estensione impropria del concetto di congiunti consentiva ai giovani (e non solo) di vedere la compagna o il compagno. E magari quelli che oggi scendono in piazza erano gli stessi muezzin che si arrampicavano sulle terrazze, alle 18, al canto di ‘’tutto andrà bene’’. E i ristoratori che non vogliono effettuare i controlli per chi entra nei locali interni, hanno dimenticato i mesi delle serrande abbassate o della possibilità di servire solo all’esterno, del distanziamento tra i tavoli o del controllo sul grado di parentela delle persone che pranzavano assieme o dell’accertarsi che chi si alzava da tavola per andare alla toilette indossasse la mascherina? Da decenni, nei locali pubblici è vietato fumare; e a controllare che ciò non avvenga ci pensano il titolare e i camerieri.
Il tabagismo è una dipendenza che è stata tutelata persino durante il lockdown: le tabaccherie non sono mai state chiuse al pari delle farmacie. Eppure, si può fumare solo in casa propria, nelle camere a gas riservate ai fumatori e all’aria aperta. I fumatori non hanno neppure la scappatoia del green pass. Non entrano e basta. Ma l’atteggiamento che dovrebbe indurre una rivolta morale è quello dei grandi soggetti collettivi: i sindacati. Come ha scritto Marco Bentivogli, un ex sindacalista troppo bravo per continuare ad esserlo, «il sindacato ha un senso se è scuola di responsabilità ed agenzia educativa» e non «se è cassa di risonanza delle corporazioni». Ma quelli ancora in servizio permanente effettivo non sanno che pesci pigliare.
«Sia chiaro, il sindacato sta invitando tutti i lavoratori a vaccinarsi e non abbiamo nulla di principio contro il Green Pass, ma in nome di ciò non è accettabile introdurre una logica punitiva e sanzionatoria nei confronti di chi lavora»: ad affermarlo è il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, che in una intervista a Repubblica ha criticato le multe previste nel decreto per il personale scolastico che si presenti al lavoro privo di green pass e la norma che di fatto equipara le mense aziendali ai ristoranti. Che senso ha affermare che i vaccini e il green pass sono fondamentali, ma che se ne può fare a meno perché bastano le misure di protezione previste nei benemeriti protocolli di sicurezza? L’ayatollah supremo della Cgil non si pone neppure il problema – già individuato dalla giurisprudenza – della responsabilità dell’imprenditore per gli effetti dell’infortunio da covid-19, né della possibilità (o meno) di accesso nelle aziende e negli uffici di coloro che non vogliono vaccinarsi.
Il governo nell’introdurre il green pass non può limitarsi ad imporlo ai “soliti noti” ovvero a quanti hanno pagato di più in conseguenza delle chiusure imposte (bar, ristoranti, cinema, teatri, ecc.). Occorre “sparare nel mucchio” ovvero garantirsi – nella misura del possibile – una condizione di relativa sicurezza dei milioni di persone che lavorano. Le misure prese nel caso del personale scolastico vanno nella giusta direzione anche se la segretaria generale del sindacato scuola della Cisl si è lasciata andare a dichiarazioni assai discutibili (per non dire di peggio). «Emerge invece, e mi chiedo quale sia il motivo – ha dichiarato Maddalena Gissi – una sorta di accanimento verso il personale scolastico, per il quale si prevedono sanzioni che non trovano riscontro in nessun altro settore lavorativo, nemmeno nella stessa sanità».
Alla fine dei conti, i sindacalisti dovrebbero rispondere ad alcune domande: 1) il dipendente che non vuole vaccinarsi può entrare ugualmente al lavoro oppure (come afferma la giurisprudenza) può essere sospeso a meno che non si rimedi, in azienda, una diversa mansione che metta in sicurezza sia lui che i collegi e i terzi?; 2) nel caso che diventi inevitabile un provvedimento di sospensione il “renitente” deve essere retribuito e a che titolo?; 3) se gli altri dipendenti sostengono che la loro sicurezza è minacciata che cosa fa il sindacato? Difende il diritto di coloro che rifiutano il vaccino?; 4) se il datore di lavoro, avvalendosi delle sentenze nel frattempo intervenute, sospende senza retribuzione gli “irriducibili”, come reagisce il sindacato? Chiama i vaccinati a scioperare in solidarietà coi colleghi “renitenti” (i quali, secondo l’azione di moral suasion dei sindacalisti sono in errore)? Almeno la CGT francese ha assunto una decisione coerente sia pur degna di un sindacato divenuto irriconoscibile e che si è messo a rimorchio di ogni refolo di protesta: chiama i lavoratori a scioperare contro quello che definisce “obbligo vaccinale”.
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