Nel 1964 a Mosca viene defenestrato Nikita Krusciov. Per la prima volta nella storia sovietica un leader deposto non viene fucilato. Sembrava un buon segno. Alcuni mesi dopo, Palmiro Togliatti si reca in vacanza a Jalta, sul Mar Nero e, in attesa di incontrare i nuovi leader, stende un memoriale sul movimento comunista che decreta la fine dell’Internazionale Comunista e inaugura la stagione delle vie nazionali al socialismo. Pochi giorni dopo Togliatti muore (di morte naturale) e Luigi Longo, che prende il suo posto, decide di rendere pubblico quel documento. Anche questo sembrava un buon segnale.

Alla luce di questi due fatti, il filosofo torinese Norberto Bobbio prende carta e penna e scrive una lettera indirizzata a Giorgio Amendola nella quale chiede al prestigioso dirigente comunista se non ritiene che questi eventi aprano la via alla creazione, in Italia, di un unico grande partito dei lavoratori italiani. Un partito nel quale possano confluire e ricomporsi “le sparse membra del socialismo italiano”. Scriveva Bobbio: “Oggi l’Italia è matura per un grande partito unico del movimento operaio. Noi (socialisti liberali) abbiamo bisogno nella vostra forza. Ma voi (comunisti) non potete fare a meno dei nostri principi”. Amendola pubblicò la lettera e si dichiarò favorevole all’avvio di un processo che noi oggi chiameremo di “unità socialista”.

Come è noto, l’iniziativa di Bobbio e Amendola non andò a buon fine. Ad essa si opposero non solo gli ex staliniani ma anche i cosiddetti ingraiani, i quali già allora – e ancora oggi – erano alla ricerca di una inesistente terza via tra la dura realtà del comunismo sovietico (l’unico socialismo reale, come lo definiva Leonida Bréžnev) e la concreta e positiva esperienza storica delle socialdemocrazie europee. Curiosamente, a questa prospettiva, Luigi Longo non si oppose. La riteneva meritevole di approfondimento, a cui contribuì con un suo articolo nel quale suggeriva al nuovo partito di adottare come regola di vita interna il centralismo democratico che aveva dato buona prova di sé nel Pci – ed era vero – piuttosto che il sistema delle correnti che, come la storia del socialismo insegnava, favorivano continue scissioni. In un incontro conviviale con i giovani della Fgci (io allora ero fra questi) Longo, quando già era stato colpito da un ictus e non era più Segretario ma Presidente del Partito, ad una domanda su questo tema rispose, con sottile umorismo piemontese: “E se poi i cretini si organizzano in corrente e diventano maggioranza? Che cosa facciamo? Meglio evitare”.

Quella stagione comunque durò solo lo spazio di un mattino, e fu davvero un peccato perché se fosse andata in porto si sarebbero create le condizioni per l’alternanza di governo e la storia della Prima Repubblica sarebbe stata assai diversa. È possibile oggi ripercorrere questa strada, come ha suggerito Roberto Morassut sulle pagine del Riformista? No, non solo perché Bobbio e Amendola erano dei giganti ma anche perché la cultura politica e l’ideologia che nutrivano quelle formazioni non esistono più, e una nuova cultura politica non la si inventa dall’oggi al domani. Lo stesso Morassut ha intuito questo, ed ha ripiegato sulla più modesta proposta di un tavolo di concertazione tra le forze politiche del centrosinistra per definire un programma su cui tutti possano convergere. Anche questa però sembra, almeno a me, una proposta velleitaria per il semplice fatto che ciò che le divide è molto di più di ciò che le unisce.

Suggerirei a Elly Schlein di alzare l’asticella del confronto e di fare un piccolo esperimento. Convochi un incontro e metta sul tavolo il Programma per l’Europa steso su incarico della Ue da Mario Draghi. All’epoca della sua presentazione, Elly Schlein dichiarò: “Questo è il nostro programma!”. Bene, anzi benissimo. Chieda allora ai suoi futuri partner se anche loro condividono questa sua idea. Il rapporto Draghi affronta in modo sistematico, e direi inconfutabile, i grandi nodi del debito pubblico comune, degli indispensabili investimenti nella scuola, nella formazione, nella sanità e nella ricerca. Delinea le linee guida della politica industriale ed energetica necessaria per uscire dalla stagnazione. Affronta i nodi ineludibili della politica estera e della difesa comune. È pronto il centro sinistra a farla propria? Questa è la domanda che il PD dovrebbe porre a sé stesso e ai suoi potenziali alleati.

Lo stesso Beppe Grillo, dovendo scegliere tra Draghi e Conte, scelse – bisogna dargliene atto – Draghi (e il “perfido” Conte gliel’ha fatta pagare con gli interessi). Il PD è in grado di fare una simile operazione politica? Temo di no. A me sembra che l’anello debole della catena del centro sinistra non siano i Cinque Stelle ma sia piuttosto il PD. La ragione di questa debolezza sta nel fatto che il PD, a differenza del Pci da cui proviene, e le cui sedi tutt’ora occupa, non ha un gruppo dirigente, non dispone di organismi collegiali autorevoli e pienamente funzionanti. Non c’è al suo interno un visibile confronto di idee né vi sono segni di una comune elaborazione. A comandare è il Segretario di turno. È lui (in questo caso lei) che parla, decide, sceglie.

Elly Schlein fa quello che può ma, sia detto senza offesa, non sembra essere all’altezza del compito, e la mancanza di modestia certo non l’aiuta. È di volta in volta quello che l’ambiente in cui si trova vuole che lei sia: un’operaia con gli operai, un medico con i medici, una emigrante tra gli emigranti, ecc… una Zelig della politica. Parla di sanità, di scuola e ricerca solo per chiedere più investimenti ed è evidente che non è in grado di dire dove si prendono questi soldi, come si crea la ricchezza necessaria per investire e redistribuire. I problemi della crescita e dello sviluppo (l’Italia è in una stagnazione checché ne dica il governo) sembrano esserle estranei così come quelli del salario, che vengono derubricati alla sola questione del salario minimo – sacrosanto – mentre il vero problema è quello del livello inaccettabilmente basso dei salari dei lavoratori più professionalizzati dei quali il sindacato sembra non occuparsi più.

Le uniche voci che nel PD concordano sulle linee guida del piano Draghi sono quelle dei riformisti. Ma, a differenza di Amendola, che quando aveva qualcosa da dire sapeva farsi sentire, la loro voce è fioca e non si sente. Anche la voce del fu “terzo polo” non si sente. Avrebbe avuto tante cose da dire ma purtroppo si è suicidato. Come ha detto Mastella: “Abbiamo assistito al più spettacolare suicidio politico della storia repubblicana”, ed è difficile dargli torto. Quello di cui il centrosinistra avrebbe davvero bisogno non è perciò un tavolo di concertazione dove smussare gli angoli ma un’arena dove affrontare a viso aperto, senza doppiezze e fingimenti, i veri grandi nodi che la politica italiana deve sciogliere se vuole che il paese torni a crescere. Se questo confronto non c’è allora il campo largo è destinato a restare quello che oggi è: un arido deserto dei Tartari.

Gianfranco Borghini

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