L’immagine di un gruppo di magistrati in piedi che intona “uniti, uniti” nell’aula delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione – all’esito di un’assemblea dell’Associazione nazionale magistrati – non può che suscitare sincero imbarazzo e disagio in chi crede nella sacralità di quel luogo, di quella funzione alta, complessa, necessariamente intrisa di equilibrio e misura, che lì viene esercitata.

Una “gazzarra” sindacale che è specchio di una magistratura divenuta qualcosa di molto diverso da quello che immaginava dovesse essere il costituente. Potere autonomo, indipendente, esercitato da un giudice soggetto soltanto alla legge, garanzia per tutti i cittadini del rispetto dei princìpi costituzionali. Potere – per questo – necessariamente lontano da ogni tentazione politica, da ogni personalismo, rispettoso del Parlamento e delle prerogative del governo.

Sappiamo tutti cosa è accaduto. La vicenda Palamara ne ha offerto solo uno stralcio. Quello che faceva Palamara accadeva ben prima che questo magistrato assumesse le sue prime funzioni nel 1997. Lamberto Dini – presidente del Consiglio per 16 mesi, dal 1996 al 1997 – in un’intervista ha detto con grande chiarezza qualcosa che tutti i frequentatori dei palazzi di giustizia (e per primi, ovviamente, i magistrati) hanno sempre saputo. “Gli rappresentai che c’era un Consiglio superiore della magistratura dominato dalle correnti politiche e che c’era la necessità di riformarlo per renderlo più indipendente. E poi affrontai il tema della separazione delle carriere dei magistrati”, ha fatto sapere riferendosi a un colloquio con l’allora presidente della Repubblica Scalfaro.

Correntismo e necessità di separare le carriere (chissà se anche il moderato Dini è sospettabile di odiare i magistrati e di volerne gratuitamente ridimensionare le funzioni di guardiani dei diritti). Il presidente gli fece presenti i limiti del suo mandato tecnico e lo indusse a desistere da progetti riformatori di tale portata. La questione della degenerazione è stata però archiviata dalla magistratura (è proprio il caso dirlo, visto che c’è stato un provvedimento generale di archiviazione del procedimento disciplinare da parte del procurare generale della Cassazione) con la giubilazione del capro espiatorio e di pochi suoi presunti sodali.

Tutti gli altri, attraverso questo salvifico e istantaneo rito purificatorio, avrebbero – almeno secondo loro – miracolosamente riacquisito la più ampia e indiscutibile verginità morale e altrettanta intangibile autorevolezza. La totale delegittimazione della magistratura, mai stata così priva fiducia da parte dei cittadini, secondo il presidente dell’Anm (che ha aperto con il suo intervento l’assise che si è conclusa con la “gazzarra”) sarebbe colpa del governo, della politica, della stampa, forse anche del cambiamento climatico che ci ha portato via le mezze stagioni, ma non certo colpa loro (neppure in minimissima parte).

Quanto alla separazione, beh, qui si raggiunge l’apogeo di ogni argomentazione logica. In tutte le democrazie consolidate gli ordinamenti di giudici e pubblici ministeri sono separati. L’unitarietà è tipica dei regimi autoritari, nei quali lo Stato è percepito con un unico potere che agisce nell’interesse della collettività, senza separazioni tra poteri, senza bilanciamenti e senza trasparenza. Da noi diventerebbe invece una riforma contro la magistratura. A sentire queste argomentazioni viene da chiedersi se ci credono davvero o se semplicemente non si sono resi conto che è passato il tempo in cui bastava che dicesse qualcosa un magistrato (meglio se un pubblico ministero) per farlo diventare vero.

Rinaldo Romanelli

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