Sono ebreo. Non ne traggo motivo né di orgoglio né di vergogna […]. Non rivendico mai la mia origine salvo che in un caso: quando mi trovo di fronte a un antisemita (Marc Bloch, “La strana disfatta”, 1946).

 

 

Il conflitto in medio oriente è ormai diventato una specie di porto delle nebbie, in cui i figli delle vittime della Shoah sono accusati di genocidio del popolo palestinese. La semplice comparazione è ignobile, ma la sua percezione è ormai diffusa nell’opinione pubblica internazionale. D’altronde, l’antisemitismo è come un fiume carsico: riemerge in superficie ogni volta che Israele combatte per la propria sopravvivenza. Oggi il suo diritto a esistere viene nuovamente negato dal burattinaio dei tagliagole di Hamas e Hezbollah. Perché lo stato israeliano, come recita sia la propaganda islamista sia quella a ovest di Allah, sarebbe l’emissario del “Grande Satana” americano (copyright dell’ayatollah Khomeini).

Una distorsione brutale della realtà che non è facile contrastare. Del resto, come aveva intuito Theodor W. Adorno, le radici dell’antisemitismo si spingono sino alla profondità più oscura e misteriosa della nostra civiltà. Hannah Arendt ha collocato l’antisemitismo tra le componenti determinanti dei totalitarismi novecenteschi. Per l’allieva di Karl Jaspers, solo riconoscendo che gli ebrei d’Europa erano stati selezionati per un progetto di feroce epurazione dell’umanità, lo sterminio poteva essere definito come un crimine contro “tutta” l’umanità. Gli ebrei erano stati le prime vittime delle fabbriche della morte, ma il loro destino tragicamente eccezionale doveva gettare la luce sul destino di “tutti” i popoli.

Arendt, inoltre, era convinta che la ultrasecolare tradizione antigiudaica chiamava in causa tutte le élite europee, culturali, religiose, politiche e sociali (“Le origini del totalitarismo”, 1951). Ne aveva ben donde. In fondo, come aveva capito lo storico francese March Bloch, la catastrofe dell’Olocausto non sarebbe stata possibile senza la sconfitta della logica, cioè della menzogna che diventa verità. E, come aveva capito il filologo tedesco Victor Klemperer, essa non sarebbe stata possibile senza lo scempio della lingua: “Il nazismo [intende] privare il singolo della sua natura di individuo e anestetizzare la sua personalità, sino a renderlo un elemento del gregge senza pensiero né volontà, […] a farne un atomo di un masso rotolante” (“LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo”, Giuntina, 2008).