A 50 anni dalla sua morte
L’appello inascoltato di Kelsen per la difesa della democrazia
A cinquant’anni dalla morte di Hans Kelsen, le tendenze attuali che inducono a parlare di una crisi della democrazia, che coinvolge gli Stati Uniti e la vecchia Europa, sollecitano un confronto con la riflessione del più grande giurista del Novecento. Il malessere, che oggi attraversa in vari modi i regimi democratici, è (al momento) altro rispetto alla catastrofe che tra le due guerre mondiali distrusse l’Italia liberale, la Repubblica di Weimar e quella di Spagna, l’esperimento austriaco. Si trattò di un contagioso declino di cui lo sconfitto Kelsen fu uno straordinario testimone.
In vista della tenuta dei regimi democratici, poi travolti dalle autocrazie, rimase sterile l’appello del giurista praghese a “quei pochi le cui teste sono ancora libere dall’obnubilamento delle ideologie politiche” per sollecitarli ad esplicitare nello spazio pubblico una “professione di democrazia”. Egli la riteneva storicamente necessaria per la difesa del “razionalismo empirico-critico” assunto quale rimedio contro la metafisica e il mito politico, che avanzavano con il subdolo “culto di un irrazionale nebuloso” (Sociologia della democrazia, ESI, p. 43).
In un’età che ormai sostituiva il linguaggio costruttivo della politica con il dialetto distruttivo della guerra civile, fu sbeffeggiato il monito kelseniano che denunciava i pericoli dell’ideologia alimentata da Carl Schmitt. Le schmittiane categorie del politico si rivelarono dissolutive postulando la totalità politica del popolo incardinata sui valori materiali di una comunità organica, coesa e ricomposta in senso fortemente identitario attraverso il magismo e la “oscurità mistica” del capo carismatico, che confidava nel “dispiegamento estremamente acritico e miracolistico della forza”.
Kelsen, che aveva guardato con una certa simpatia alle progettualità costituzionali del socialismo viennese, e aveva dialogato con Max Adler, non esitò a denunciare l’immaturità politica del movimento operaio. Se in occidente il socialismo non vinceva, egli scriveva, non era colpa o merito della democrazia, che comunque rimaneva, sul terreno del possibile, come “la forma di Stato dell’ascesa politica del proletariato”. In qualità di regime pluralista, aperto al gioco conflittuale di partiti e di élite in competizione, che sono dotate di eguali chances per la conquista della maggioranza, la democrazia contemplava un successo che, però, non era in alcun modo da considerare come “la forma di una conquista definitiva del potere” (ivi, p. 45). Ciò esigeva, per le forze del cambiamento, la rinuncia alla nozione di “potere” come postazione da espugnare.
Sul piano della contingenza storica (il “tetro orizzonte” della vecchia Europa), il socialismo avrebbe dovuto sviluppare la capacità di tessere alleanze sul terreno politico. Questa strategia accorta era suggerita da Kelsen poiché, nelle situazioni critiche, la borghesia impoverita non si rivolgeva alle forze del proletariato per trovare una qualche sicurezza, ma si aggrappava saldamente al nazionalismo in quanto sedotta da una idea “eroico-romantica” che affascinava il ceto medio in perdita di status e turbato dalla paura del pericolo rosso. Non meno dura è stata la critica di Kelsen (Dio e Stato, ESI, 1988, p. 52) alle implicazioni impolitiche e vagamente anarchiche, nel segno addirittura di una “fuga dalla politica”, contenute nelle pieghe della tradizione classica liberale.
In pagine sorprendenti, egli accostava Nietzsche (“il filosofo dell’impolitico secolo XIX”), il suo “culto antipolitico del superuomo senza Stato” e, in ultima istanza, la censura dello Stato come “idolo superfluo”, ad un interprete dell’individualismo liberale come Humboldt (teorico precoce dei limiti del potere pubblico). Kelsen rimarcava con forza “il carattere impolitico – perché in fondo ostile o estraneo allo Stato – del liberalismo”, che si presentava con le maschere di un individualismo atomistico (“unità ultima oltre la quale non c’è nulla, all’Io”) e procedeva nella contestazione delle reti sociali di integrazione. “Può sembrare un paradosso, ma è soltanto logico che la politica del liberalismo, che è la politica della liberazione, porti alla fine alla liberazione dalla politica”, scriveva il giurista. Nelle sue declinazioni più estreme, il liberalismo, sulla scia di Humboldt, conduceva al nichilismo etico e in definitiva all’anarchismo politico.
Dopo “la distruzione della democrazia” avvenuta tra le due guerre, la strada che Kelsen indicava per la ricostruzione del paradigma del costituzionalismo era quella di una ridefinizione dell’ordinamento con l’apporto di un’autocritica da parte delle grandi tradizioni teoriche occidentali. La sua formula riassuntiva, in esplicito contrasto con Schumpeter, era che “la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico” (Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas, p. 293). Questo scostamento tra liberismo (economia) e liberalismo (politica), e più in generale tra capitalismo e democrazia, rendeva possibile, all’intero del catalogo delle procedure garantistico-liberali che in Europa si erano nel tempo evolute sino alle versioni più avanzate del costituzionalismo democratico, l’innesto di significative istanze socialiste che aprivano la costituzione alle richieste di giustizia materiale, ai bisogni.
La democrazia del compromesso, sorta nel secondo dopoguerra, postula in tal senso un dinamico equilibrio di forze, sempre legato all’esito provvisorio di operazioni conflittuali che istituzionalizzano i rapporti sociali contingenti (diritti di cittadinanza, beni pubblici e sociali, spazi di partecipazione deliberativa, impianto cosiddetto neo-corporativo per le politiche). Agli occhi di Kelsen, il regime democratico appariva come regime strutturalmente fragile, vulnerabile perché per il suo funzionamento esigeva la presenza tutt’altro che scontata di élite responsabili, di una cultura civica diffusa tra le masse, di grandi organizzazioni politiche, di relazioni internazionali giuridicizzate ruotanti attorno al principio del ripudio della guerra e organizzate secondo il riferimento positivo agli ideali di una civitas maxima.
Come regime dell’incertezza, la democrazia, anche nei tempi normali che la vedono come un sistema di potere consolidato, deve sempre ricorrere, per Kelsen, ad un’attenta rivalutazione delle proprie prestazioni alla luce delle suggestioni dei “sospiri pessimistici di Rousseau” (La democrazia, Il Mulino, p. 119). Il rendimento della forma democratica è minato, in ultima istanza, dalla difficoltà di conciliare il principio della democrazia-metodo (la rappresentanza) con le rivendicazioni della democrazia-valore (domande sociali, partecipazione, controllo). L’esposizione della Parliamentary Democracy alla crisi è connessa alla sensazione di un divario crescente tra procedure e valori, tra forma e vita, che si approfondisce per la condizione di “irresponsabilità del parlamentare nei confronti dei suoi elettori”. Questa sfasatura oltrepassa il confine del fisiologico scetticismo sulle prestazioni del potere di governo per diventare un’autentica patologia democratica quando saltano i soggetti della mediazione politica e sociale, e nessun ponte opera con efficacia per connettere Delegation e Accountability.
Nelle fasi di smottamento della rappresentanza politica, riaffiora la fondatezza del timore di Kelsen circa il possibile riproporsi sull’arena democratica di forze illiberali capaci, con i loro sempre aggiornati cataloghi di miti irrazionali, di “sollevare le emozioni politiche delle masse”. Ora che sempre più palpabile appare il cedimento di settori rilevanti dei Partiti Popolari europei verso le simbologie della destra radicale, l’appello inascoltato che Kelsen rivolse nel secolo scorso alle culture politiche più responsabili, affinché assumessero un comune impegno per la difesa della democrazia (ogni volta esposta ad un “destino tragico”), torna a riecheggiare come un monito prepotentemente attuale.
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