«L’architetto della prigione è il primo esecutore della pena; egli è il primo artefice dello strumento del supplizio”. Questa affermazione del penitenziarista ottocentesco Louis Mathurin Moreau-Christophe, mantiene ancora oggi inalterata la sua verità. Nel passato, sin dalle origini, gli edifici carcerari sono stati l’espressione dell’idea di incarcerazione del momento, a conferma dell’importanza della configurazione fisica di qualsiasi impianto penitenziario per il raggiungimento di specifici obiettivi penali. Oggi questo, per lo più ovunque, non succede più.

L’architettura, strumento di riscatto

L’Architettura, con la funzione sociale che le appartiene, ovunque si collochi, potrebbe diventare strumento di riscatto. Essa, in quanto arte a pieno titolo, è espressione dello spirito del tempo, manifestazione di aspirazioni e obiettivi di giustizia, uguaglianza e solidarietà. L’architetto, con i suoi sentimenti e le sue emozioni, diventa interprete dei desideri e delle speranze della società; progettando un carcere deve inevitabilmente essere consapevole dei rapporti che intercorrono tra delitti, pene e recupero di chi ha sbagliato. Le mura del carcere ovunque da sempre invalidano, rendono incerti, scoraggiano, minano, reprimono, nonostante le leggi sanciscano il contrario.

La finalità risocializzativa della pena contemporanea trova soddisfazione se la localizzazione e la configurazione dell’edificio carcerario soddisfano esigenze relazionali con l’esterno e all’interno e di fabbisogno spaziale per le attività trattamentali. Allo stesso modo, il rispetto dell’umanità e della dignità del detenuto e del detenente dipende dalla qualità materiale dell’ambiente carcerario, rappresentato da adeguate soluzioni architettoniche e dallo stato di conservazione e dalle modalità d’uso dei luoghi. Una qualità che si raggiunge solo mettendo al centro della scena detentiva l’individuo, con i suoi bisogni fisiologici, psicologici e relazionali. Da tutto questo derivano i requisiti in grado di garantire condizioni di vita meno ansiogene e più dignitose e di creare relazioni materiali ed immateriali positive e riabilitanti.

La realtà delle nostre carceri

Negli ultimi decenni il pensiero del valore dell’architettura correzionale come catalizzatore per risultati positivi, ha portato all’estero a realizzare carceri “inedite” di alto valore architettonico, perché improntate al rispetto della funzione sociale, alla qualità estetica, al benessere ambientale. Le soluzioni tradizionali sono state abbandonate per nuovi modelli spaziali, concepiti anche con l’ausilio delle teorie della sociologia, della psicologia e persino dell’ecologia e dove l’architettura e gli ideali riabilitativi sono stati armonizzati.
Purtroppo la realtà architettonica delle nostre carceri ci fornisce un quadro impietoso e diametralmente opposto. Le nostre carceri (189 in funzione, diverse tra loro per epoca storica e per tipologia costruttiva), appaiono strumento di distruzione fisica e morale dell’individuo ed espressione di arretratezza culturale e morale. Una realtà che deriva in generale dal modo di progettare le opere pubbliche, al quale le carceri appartengono, e sino agli aspetti peculiari della produzione edilizia carceraria. Da troppi anni la fabbricazione delle opere pubbliche, e quindi anche degli edifici carcerari, è condizionata dalla cultura dell’emergenza che ha spazzato via gli spazi di un pensiero critico, con un conseguente impoverimento ideativo e progettuale.

Le priorità

Con una visione al passato recente del nostro carcere, il periodo degli anni di piombo e l’avvento della nuova criminalità organizzata, nel focus della Riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975, hanno obbligato a privilegiare le esigenze securitarie a discapito di quelle trattamentali. L’eredità che il passato remoto e quel periodo ci hanno lasciato, sono edifici inadeguati alle esigenze attuali. Passato il periodo emergenziale, per le produzioni edilizie carcerarie successive non vi è stato riscatto, né poteva esserci, in assenza di un chiaro mandato politico e di strumenti culturali adeguati. A riguardo nelle scuole di Architettura l’edificio carcerario non è insegnato, l’Accademia non se ne occupa, la categoria degli architetti non è coinvolta.

L’impegno morale e culturale

A differenza di quanto succede oltre confine, le carceri in Italia non sono progettate facendo ricorso alla pratica del concorso di idee, con il coinvolgimento di valenti architetti, nonostante la nostra norma sulle opere pubbliche lo preveda. Tutto è risolto nel chiuso degli uffici ministeriali in maniera burocratica e farraginosamente, con l’unico obiettivo di accelerare il processo edificatorio, peraltro sempre deficitario e a discapito della qualità del prodotto edilizio. In questo modo i nostri edifici carcerari in funzione, a prescindere dalle epoche storiche di appartenenza, appaiono destinati a contenere cose e non ad ospitare persone, in palese e costante violazione del monito costituzionale.
Nonostante i timidi tentativi ministeriali del recente passato per produrre Architettura e non edilizia carceraria, non si intravedono all’orizzonte spiragli di luce. Il contesto culturale e gestionale, nel quale si verrà a collocare l’annunciato “Piano carceri” gestito da un Commissario straordinario, non è certamente favorevole. È tempo di reclamare un ritorno a una progettazione del carcere, ridimensionato nel suo utilizzo, che si ponga il problema del contesto e dell’utente, e non certo per una richiesta corporativa. Si tratta in ultimo di fornire all’edificio carcerario i requisiti che lo possano ricondurre nell’alveo costituzionale e della norma, quale espressione di una società che si professa civile. Attrezzarsi per una progettistica competente e consapevole, diventa un impegno culturale e morale.

Cesare Burdese

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Architetto