Sangiuliano era un conservatore prezzoliniano. Uno sgobbone ambizioso, racconta chi l’ha conosciuto da giovane. E metterlo in croce è stato un gioco da ragazzi, quando si dava arie da intellettuale e poi scivolava su incredibili svarioni. Finché a farlo fuori ci ha pensato il fatale apostrofo rosa dell’amore. E allora ecco Alessandro Giuli. Altra cultura, altro aplomb, altra prestanza. Ed ecco il mainstream mediatico, che dapprima ha rovistato famelico nella sua biografia, scovando militanze giovanili di estrema destra ma anche pamphlet caustici nei confronti del postfascismo, collaborazioni presso Libero e Il Giornale, ma anche la lunga vicedirezione del Foglio di Ferrara. Sembrava un osso duro. E il mainstream l’ha preso con le molle, senza far troppo vedere di essere infastidito da quel recupero di Gramsci (addirittura!) che troneggiava nel suo ultimo libro.

L’audizione “supercazzola”

Poi però il ministro si è presentato in audizione alla Camera, illustrando la propria idea di cultura e di politica culturale. E allora apriti Cielo! “Giuli l’Oscuro”, ha scritto Gramellini sul Corriere, sbeffeggiando “un testo che aspetta ancora uno studioso di lingue sumeriche, o un elettricista in grado di illuminarlo”. “Tra Hegel e Amici miei” ha ironizzato la Repubblica. “Il piano cultura di Giuli in stile conte Mascetti”, ha titolato La Stampa, ripetendo la citazione del leggendario Monicelli. E Travaglio, naturalmente, non ha potuto esimersi dal trasformare la supercazzola in “supergiùliola”. Per l’occasione, insomma, un mainstream usualmente altezzoso nei confronti delle velleità culturali della destra-ghetto ha vestito invece i panni del populismo. Della demagogia più smaccata.

Il peccato di Giuli… fare ragionamenti colti

Il peccato di Giuli? Non si era fatto capire. Aveva parlato di ontologia della rivoluzione e ideologie della crisi, di infosfera e ipertecnologizzazione, intendendo mettere in guardia da una reazione passivamente entusiasta o invece apocalittica di fronte alla modernità. Aveva invitato a non “precipitare nelle passioni tristi”. Era una concettualizzazione che, con ogni evidenza e forse con qualche puntiglio, non concedeva nulla al linguaggio corrivo della politica. E il mainstream, punto sul vivo, non ha neppure tentato di rispondergli. Ne ha approfittato per ridurlo alla macchietta di Ugo Tognazzi. Che un ministro della cultura (di destra) potesse fare ragionamenti colti – e forse interessanti – è apparso inconcepibile. Che non trattasse le Commissioni Cultura di Camera e Senato come un’assemblea di condominio è sembrata una bizzarria. Meglio darlo in pasto ai talkshow dei Corona e dei Di Battista.

Esistono, nel ventre robusto della Repubblica, luoghi simbolici o materiali che per nessuna ragione possono essere toccati. Come la magistratura. Come l’Anpi. Come la piazza anticapitalistica. O come il Mic, il temutissimo custode della politica culturale del Paese. Veglia sul Mic, da sempre, una potente macchina ministeriale che nessuna alternanza riuscirà mai a scalfire. E veglia, su quella macchina, una sinistra che può perdere per strada milioni di voti, può finire all’opposizione, può arrovellarsi in infinite guerre intestine, ma che mai e poi mai rinuncerebbe alla roccaforte della cultura. Giuli ne ha avuto il primo assaggio.