Vent'anni fa l'uccisione del giuslavorista
Lasciammo uccidere Marco Biagi, riformista di sinistra messo al bando dalla sinistra stessa
«Marco Biagi muore a Bologna la sera del 19 marzo 2002 all’età di 51 anni, vittima di un attentato terroristico delle Brigate rosse». Con queste essenziali parole termina il libro che l’allievo prediletto, Michele Tiraboschi, dedicò al suo maestro nel primo anniversario della morte. Sono trascorsi vent’anni. Oggi Marco avrebbe l’età della pensione; sarebbe nonno di due belle bambine, le figlie di Francesco. Facendo tesoro delle esperienze, delle iniziative, degli studi e delle pubblicazioni a cui si sarebbe dedicato in tutti questi anni, continuerebbe a “fare scuola” alle diverse generazioni di allievi in quel Centro studi di relazioni industriali – ADAPT – che aveva fondato nella Facoltà di Economia di Modena e Reggio Emilia, dove era professore ordinario di diritto del lavoro.
Quella di Marco Biagi era una vita organizzata, scandita da orari prestabiliti, da spostamenti consueti, da iniziative programmate e svolte nel minor tempo possibile. Solo così era in grado di governare la mole di opere in cui era impegnato. L’insegnamento prima di tutto; poi i rapporti con gli allievi e gli studenti, tutti in qualche modo associati alle molte attività che il professore svolgeva. Biagi sapeva motivare i propri collaboratori, coinvolgendoli nelle ricerche che gli erano state affidate, nella vita delle associazioni che aveva promosso, nel lavoro redazionale nelle riviste giuridiche che dirigeva o nelle numerose relazioni internazionali intraprese sulla via del benchmarking. Da alcuni anni, oltre che a Bruxelles dove era rappresentante del governo italiano del Comitato per le politiche del lavoro, Marco doveva recarsi spesso a Roma e misurarsi con i tempi morti dei ministeri, con le trappole della politica. Ma era riuscito ad affermare il suo metodo di lavoro; poco alla volta furono gli uffici ministeriali ad adattarsi alle sue regole, a preparare le riunioni, una dopo l’altra, affinché neppure un minuto andasse perduto.
Poi, c’erano gli articoli. Per collaborare a un quotidiano – come Il Sole-24 Ore – occorreva prontezza e disponibilità, bisognava saper rispondere in poche ore alla richiesta del direttore prima della chiusura del giornale. Biagi scriveva ovunque, anche sul treno che lo portava da Roma a Bologna, pronto a dettare, via cellulare, ai dimafoni (allora non era diffuso internet) il pezzo, magari durante la sosta nella stazione di Firenze. Non era facile per lui dedicarsi alla famiglia, alla moglie Marina e a quei due meravigliosi ragazzi che crescevano a vista d’occhio e che presto avrebbero preso la propria strada. Così, Marco difendeva gli spazi dedicati ai suoi cari con tutta la disciplina di cui era capace. Talvolta con un’accanita ritualità: la corsa domenicale in bicicletta bardato come Pantani; la messa in parrocchia; la partita allo Stadio, a tifare Bologna. Ma la domenica era fatta di altre consuetudini: i tortellini in brodo in tavola, ad esempio, acquistati, come ogni sabato, dal salumiere di via Oberdan, lo stesso che il giorno dei funerali chiuse il negozio per lutto. Poi, c’era la lettura del Corriere della Sera perché i ragazzi imparassero a farsi delle opinioni. Terminata la scuola e fino all’inizio del nuovo anno, la famiglia Biagi – dopo le vacanze a Marina di Ravenna – si trasferiva nel buen rétiro di Pianoro. Là, dopo Ferragosto, veniva la serata della “braciolata” con gli amici (persone di diversi ambienti, a testimonianza dei tanti incontri di Marco e Marina).
Ecco: la sua era una “vita da mediano”, ricca di promesse, di affetti e di dolci abitudini. Fino a quei sette colpi di pistola, all’ora di cena del 19 marzo di vent’anni or sono, esplosi da un commando di brigatisti scalzacani che – come si seppe nel processo – avrebbero rinunciato all’operazione se un poliziotto armato fosse stato in compagnia di Biagi. Di quella sera maledetta conservo un ricordo nitido. Mi trovavo nella mia abitazione romana e ascoltavo, seduto davanti al computer, la radiocronaca di una partita di calcio. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo un giornale radio volante diede la notizia dell’assassinio di Marco del quale ero amico da quasi trent’anni. Quel 19 marzo, non ricordo bene, era un martedì o forse un mercoledì: il venerdì precedente Il Sole-24 Ore aveva pubblicato un appello per la riforma del mercato del lavoro (nel bel mezzo della “guerra civile” sull’articolo 18) dove il professor Biagi figurava come terzo firmatario dopo Renato Brunetta e il sottoscritto. In quello stesso giorno, una delle riviste più diffuse aveva pubblicato gli stralci di un rapporto dei Servizi (ovviamente era noto a chi di dovere e che si ostinava a negargli la tutela) nel quale l’identikit di Marco spiccava a tutto tondo tra i possibili obiettivi del nuovo terrorismo.
Nel ricordare questa dolorosa sequenza di date e di fatti intendo stigmatizzare ancora una volta le responsabilità di chi non volle prestare ascolto ad allarmi, risultati purtroppo profetici. C’è un aspetto più significativo da cogliere negli ultimi mesi di vita di Marco: il valore di un insegnamento sempre attuale; la prova di un’esemplare forza morale. Sapeva di essere in pericolo, ma non volle mancare al suo dovere. Le lettere, pubblicate postume, furono scritte da una persona che avvertiva tutto il dramma della sua situazione ed era deluso per l’altrui sordità burocratica. Come se non bastasse, Biagi sentiva crescere intorno a sé un’ottusa ostilità nel proprio ambiente di lavoro e di vita; era divenuto bersaglio di un odioso ostracismo di natura pseudo-etica, soltanto perché osava collaborare con il legittimo Governo del suo Paese (per il quale non aveva votato). Dopo la vittoria della Casa delle libertà, nel 2001, tuttavia, Marco non salì sul carro del vincitore, né gli furono chiesti atti di fede politica. Il ministro del Welfare, Roberto Maroni, gli offrì un rapporto di collaborazione franco ed onesto, in piena libertà. E Marco trovò la possibilità di ritessere la trama di quella riforma del mercato del lavoro che aveva portato avanti a fianco del suo amico e collega Tiziano Treu. Soprattutto si sentì circondato da quel rispetto umano (particolare fu il suo rapporto con Maurizio Sacconi), da quella considerazione personale che la sua parte politica gli aveva revocato da tempo, soltanto perché voleva proporre dei cambiamenti a regole oggettivamente vetuste.
Nei confronti del suo lavoro le manifestazioni di un normale dissenso di merito, per altro legittimo ed utile, erano contornate da un clima contestuale di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento. Nonostante tutto ciò, Biagi non volle tirarsi indietro. Ignorò i pressanti inviti dei suoi cari; continuò a scrivere i suoi editoriali, a fornire le sue preziose consulenze, a fare la spola – da solo – tra Bruxelles, Modena, Bologna e Roma e a recarsi ovunque fosse chiamato a difendere le sue idee, a svelare le menzogne del pregiudizio ideologico altrui. Marco era un cattolico praticante; conosceva il significato del martirio come testimonianza. Per lui la vita non avrebbe avuto senso se non fosse stata illuminata da principi per i quali valesse la pena di non mollare mai. La tragedia umana degli ultimi mesi di vita è stata consegnata alle lettere; molti di noi – ancorché intimi amici – ne divenimmo consapevoli soltanto dopo quel 19 marzo 2002; perché nulla di quell’angoscia quotidiana lo distolse mai dal suo lavoro o sollevò in lui la tentazione di farsi da parte, di rinunciare. Quel “nemico del popolo” caduto davanti all’uscio di casa era un riformista, un uomo di sinistra vittima dell’ostracismo di una sinistra (il bisticcio di parole è voluto), incapace di mettere in discussione se stessa all’interno delle trasformazioni del lavoro. Si dice che i soli a morire veramente siano coloro non lasciano nulla dietro di sé. Se ciò è vero, Marco Biagi è ancora tra noi.
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