Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. A quattro giorni dall’esplosione di “Bonusopoli” e di caccia feroce agli “onorevoli furbetti”, il Garante per la Privacy è sceso in campo, fornendo un assist alla furia populista del M5s e un altro a Matteo Renzi, critico sui metodi tenuti dall’Inps diretta da Pasquale Tridico. Ieri l’Autorità, la cui governance è stata rinnovata lo scorso 28 luglio, ha fatto cadere l’alibi della privacy: i parlamentari che hanno usufruito del bonus di minimo 600 euro garantito dal decreto Cura Italia negli scorsi mesi non hanno diritto all’anonimato. Il Garante ha dichiarato che «la privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati relativi ai beneficiari del contributo laddove, come in questo caso, da ciò non possa evincersi, in particolare, una condizione di disagio economico-sociale dell’interessato».
Tradotto: gli onorevoli, poiché non poveri, non hanno diritto all’anonimato in materia fiscale. Viene meno uno scudo per i cinque parlamentari che nei mesi del lockdown hanno richiesto il bonus teoricamente destinato ai lavoratori autonomi e alle partite Iva logorate dall’emergenza sanitaria. Il Garante squarcia con nettezza il velo intorno ai deputati, per i quali «a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono, anche per effetto dei più incisivi obblighi di pubblicità della condizione patrimoniale cui sono soggetti». Come questa direttiva, già suggerita dall’Anac, possa conciliarsi con la Costituzione, sarà tema del cenone di Ferragosto. Insieme ai dubbi sul fatto che il mancato diritto alla privacy potrebbe valere anche per i consiglieri regionali e tutti gli amministratori locali. Ma come si possono equiparare le condizioni economiche di un parlamentare, mediamente pagato 12.000 euro al mese, a quelle di un consigliere comunale o un assessore di una piccola città, pagato 20 euro lordi di diaria?
Inoltre non si capisce perché chiedere conto della richiesta di accesso al bonus da parte dei numerosi cittadini impegnati nelle istituzioni locali e contemporaneamente lavoratori e titolari d’azienda. In questi giorni stiamo registrando l’enfasi giustizialista con la quale si pretendono i nomi degli amministratori locali, spesso in debito con la politica attiva, “colpevoli” di aver usufruito di un aiuto statale, come tutti gli altri cittadini. Con lo spettro della pubblica gogna sullo sfondo. Ipotizziamo il caso di un consigliere comunale di un piccolo comune, stipendiato duecento-trecento euro al mese per la sua attività istituzionale e lavoratore autonomo. Lui ha richiesto e ottenuto il bonus dei 600 euro per arginare la sopraggiunta difficoltà economica provocata dall’emergenza Coronavirus. Cosa gli succederebbe se il suo nome venisse improvvisamente diffuso nei bar del paese e sui social, possibilmente dai suoi avversari politici, come fruitore del bonus?
Probabilmente passerebbe come autore di un’infamia e politico corrotto, quando in realtà ha semplicemente sfruttato un aiuto statale in un momento di crisi. Il Garante dovrebbe pensare anche alla loro di privacy. Certamente non ci pensa Luigi Di Maio, che ieri ha accolto l’intervento dell’Autorità con entusiasmo: «Adesso non ci sono più scuse. Anche il garante della privacy ha detto che non ci sono ostacoli alla diffusione dei nomi dei deputati che hanno richiesto il bonus di 600 euro malgrado i loro stipendi da 13mila euro netti al mese. È giusto che gli italiani sappiano chi sono, che ne conoscano i volti, i nomi e i cognomi». L’ex capo politico del Movimento 5 stelle dice, con un certo ironico coraggio, che non si tratta di “gogna mediatica” o di “propaganda”, ma solo di “giustizia” e “trasparenza”. Ma il Garante ha dichiarato anche altro, annunciando una istruttoria in ordine alla metodologia seguita dall’Inps rispetto al trattamento dei dati dei beneficiari e alle notizie al riguardo diffuse».
Sotto “indagine” quindi il dico-non dico dell’Ente previdenziale italiano, fino a ieri vincolato alla privacy ma dalla quale è partita, sotto forma di scoop giornalistico, “Bonusopoli”, con annessa caccia all’uomo e ondata di anti-politica. Sarà contento Matteo Renzi che ha chiesto le dimissioni del direttore dell’Inps Pasquale Tridico, per «il clima populista di caccia alle streghe che l’Inps ha instaurato, basato anche sulle notizie false, come quelle su Italia Viva che quei soldi non li ha mai presi». L’ex premier ha accusato Tridico anche di aver dimostrato “incompetenza” su “cassa integrazione e partite Iva”. Intanto prosegue la caccia ai tre parlamentari che il bonus l’avrebbero intascato. Stando ai rumors, si tratterebbe di due leghisti e un pentastellato. I sospettati in casa Lega sarebbero Andrea Dara ed Elena Murelli, da giorni irreperibili. D’altronde l’ordine di scuderia in via Bellerio pare essere “non rispondete al telefono, nascondetevi”. Parole meno solenni delle “sospensioni immediate” promesse da Matteo Salvini appena l’altro ieri.
Intanto Luca Zaia, governatore uscente del Veneto, ricandidato stra-favorito alle regionali di settembre e soprattutto rivale interno di Salvini, ha decretato la messa al bando dalle liste dei tre consiglieri regionali leghisti coinvolti in “Bonusopoli”. Si tratterebbe di Gianluca Forcolin, vicepresidente della regione, Riccardo Barbisan e Alessandro Montagnoli. Non sono tre pesci piccoli nella lega veneta e non hanno commesso alcun reato. Ma l’ambizioso Zaia ha deciso di strizzare l’occhio al clima giustizialista. E così “Bonusopoli” diventa anche uno strumento di campagna elettorale. In attesa del referendum di settembre sul taglio del parlamentari.