Le truppe israeliane si ammassano intorno alla Striscia di Gaza mentre i loro portavoce segnalano gli obiettivi neutralizzati nei raid contro il territorio controllato ad Hamas. Una lista di target raggiunti, vertici più o meno noti dell’organizzazione che sabato 7 ottobre ha colpito al cuore lo Stato ebraico, distruggendo la vita di 1400 persone e di cui si è assunto la responsabilità il capo dello Shin Bet, Ronan Bar. Tra questi obiettivi, l’ultimo confermato è il responsabile per l’intelligence di Hamas, ucciso in un raid di Israele nell’area di Khan Yunis. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ribadito la linea del governo e del gabinetto di guerra: Hamas è considerato come lo Stato islamico e l’obiettivo indicato dal capo dell’esecutivo alla Knesset è “la vittoria”. “Trionferemo perché ne va della nostra stessa esistenza in questa regione” ha spiegato il leader israeliano, ancora nell’occhio del ciclone per la tragedia che ha devastato il Paese e che ora è chiamato e rispondere all’opinione pubblica, alla politica israeliana e alla comunità internazionale.

Ed è proprio sotto questo aspetto che il governo gioca la sua partita più difficile, tanto da far sembrare l’assedio di Gaza uno stallo “alla messicana” in attesa che si muovano soldati e tank e abbia inizio la temuta invasione. La conferma delle trattative frenetiche in corso in queste ore è arrivata dal nuovo sbarco del segretario di Stato Usa Anthony Bliken in Israele. Il secondo dopo quello avvenuto dopo l’attacco di Hamas e che giunge a seguito di una missione diplomatica che ha visto il capo del Dipartimento di Stato impegnato in colloqui con i maggiori leader della regione. Blinken ha sostenuto ancora una volta la totale solidarietà e vicinanza di Washington, ribadendo il “diritto di Israele di difendersi dal terrorismo di Hamas” e il desiderio di fornire allo Stato ebraico tutto il necessario per rendere possibile questa difesa. L’approvazione della risposta militare non manca. Allo stesso tempo, però, il capo della diplomazia statunitense ha sottolineato a Netanyahu “la consegna di aiuti umanitari ai civili” e l’intenzione dell’amministrazione Biden di evitare che la battaglia per Gaza venga pagata dalla popolazione civile in fuga verso il sud della Striscia. I morti sotto i bombardamenti aumento di giorno in giorno e le agenzie internazionali hanno lanciato ancora allarmi sul pericolo che la catastrofe umanitaria sia ormai alle porte. Le truppe israeliane hanno riaperto nei giorni scorsi le condutture dell’acqua per la parte meridionale della Striscia, quella dove si stanno rifugiando gli sfollati in attesa di capire il destino del valico di Rafah. E su questo unico punto di transito per uomini e aiuti umanitari con l’Egitto lavora ininterrottamente proprio la diplomazia Usa in coordinamento con il Cairo.

Il lavoro delle cancellerie mediorientali e di quella Usa è estenuante, mentre le forze armate dello Stato ebraico puntano la roccaforte di Hamas e Gaza guarda l’abisso. Ed è questo continuo equilibrio tra diplomazia e guerra a scandire la vita di Israele, dei territori palestinesi, ma anche dei Paesi vicini. Primo fra tutti il Libano, dove la tensione non accenna a diminuire. Il fronte nord di Israele, quello che confina con il Paese dei Cedri, è in ebollizione, tra lanci di razzi da parte di Hezbollah e miliziani palestinesi e risposte dell’artiglieria dello Stato ebraico. A Beirut si interrogano sulla possibilità che il conflitto si allarghi tramite Hezbollah, longa manus dell’Iran nel Paese. Il governo e i partner internazionali cercano di convincere la milizia sciita a evitare l’escalation. E secondo molti analisti è difficile che il movimento di Hassan Nasrallah attacchi in maniera pesante Israele al punto da giocarsi il consenso in un Libano devastato dalla crisi e dalla paura. Alcuni osservatori però ipotizzano che Hezbollah tema un ridimensionamento politico senza una prova di forza, mentre l’Iran potrebbe sfruttarlo per un approccio più duro contro Israele. Tutto è legato a un sottilissimo filo in cui si intrecciano interessi locali, regionali e mondiali. Lo stesso filo su cui danzano anche le altre due superpotenze, Cina e Russia, i cui leader sono pronti a incontrarsi in occasione del Forum sulla via della Seta. Per il presidente cinese Xi Jinping e l’omologo russo Vladimir Putin sarà il momento di fare un punto sulla loro “amicizia senza limiti” testata nella guerra in Ucraina e che sembra declinarsi anche in Medio Oriente, dove l’obiettivo di entrambi leader appare ormai quello di accreditarsi come interlocutori privilegiati in grado di fare propri anche gli interessi dei partner regionali. La strategia appare chiara anche dalle dichiarazioni del capo del Cremlino e di quello del Partito comunista cinese. Putin ha chiamato Netanyahu per riaffermare l’impegno nel far cessare la guerra.

Ha poi avuto conversazioni telefoniche anche con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’iraniano Ebrahim Raisi, il siriano Bashar al Assad e il leader dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, e in tutti i casi ha ribadito il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese e la necessità di tutelare i civili. Da Pechino ha parlato il ministro degli Esteri Wang Yi, che si è espresso a favore della causa palestinese, contro l’opzione militare dello Stato ebraico e ha chiesto un negoziato tramite l’Onu e “un ruolo responsabile” degli Stati Uniti. L’asse tra Cina e Russia passi così anche attraverso il Medio Oriente. E per Washington può essere uno stress-test fondamentale anche per comprendere la capacità di gestire più tavoli di crisi ai “confini dell’impero”. Joe Biden ha detto che gli Usa sono pienamente in grado di lavorare sui due fronti, quello ucraino e quello israeliano. E mentre ha ammesso che lo Stato ebraico “deve attaccare Hamas”, ha espresso la sua contrarietà all’occupazione di Gaza, definendola “un grave errore”. Intanto il capo della Casa Bianca mercoledì sarà in Israele.