Per capire i drammatici accadimenti in atto a Est, è cosa buona e giusta evitare di rivolgersi agli strateghi da salotto (mediatico) e andare direttamente a chi sa davvero cosa sia fare diplomazia. È la scelta de Il Riformista. Che prosegue con l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai). Diplomatico di carriera dal 1972 al 2013, è stato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri. L’ambasciatore Nelli Feroci ha anche ricoperto l’incarico di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria nella Commissione Barroso II nel 2014. Insomma, una autorità nel campo delle relazioni internazionali.
Tra discorsi, sanzioni e carri armati, a che punto è la crisi ucraina?
Con l’annuncio di lunedì scorso, con la decisione di riconoscere le due repubbliche separatiste del Donetsk e del Lugansk, Putin ha segnato un punto di non ritorno. Che è tale anche per la decisione del presidente russo di inviare truppe e mezzi corazzati in quei territori, apparentemente su richiesta dei leader separatisti. Agendo come ha fatto, Putin ha sancito una situazione sul terreno che a mio avviso è irreversibile. Noi abbiamo l’esempio del 2008 di Abkhazia e Ossezia, e lì Putin più o meno ha proceduto allo stesso modo: intervento militare e proclamazione dell’indipendenza di due repubbliche che poi resteranno congelate, perché nessuno le riconoscerà, a parte qualche satellite della Russia. A questo punto ci sono due problemi…
Quali, Ambasciatore?
Il primo è quello di vedere se Putin si ferma qui o se ha intenzione di ulteriori iniziative sul terreno. Sappiamo, ad esempio, che i leader di quelle due repubbliche sostengono che il territorio attualmente sotto il loro controllo non corrisponde alle loro aspirazioni e alla realtà sul terreno. Loro non si accontentano del territorio che oggi corrisponde alla linea di demarcazione e vorrebbero estendere il loro controllo su altre porzioni del territorio dell’Ucraina, con una estensione verso ovest e forse anche verso sud. Putin li sosterrà in questa richiesta? Avvierà un’operazione militare sul terreno? Questo complicherebbe enormemente il quadro e renderebbe inevitabile per l’Occidente di adottare altre sanzioni più pesanti di quelle adottate finora. Oppure, Putin si ferma qui, l’intervento resta circoscritto unicamente al territorio attualmente sotto controllo delle due repubbliche separatiste. A questo punto, si potrebbe forse riaprire uno spiraglio per una qualche forma di dialogo, circoscritto, limitato, che consenta di normalizzare la situazione. Per l’Occidente non credo che ci siano molte alternative se non quella di rassegnarsi al fatto compiuto. L’abbiamo visto con la Georgia, cioè con l’Ossezia e l’Abkhazia, l’abbiamo visto con la Crimea. Naturalmente noi condanneremo l’operazione, condanneremo la proclamazione d’indipendenza, non l’accetteremo mai, non la riconosceremo mai, congeleremo tutti i rapporti economici però credo che saremo di fronte al fatto compiuto.
Romano ha sostenuto che “l’Ucraina deve essere neutrale come la Svizzera”. E ancora: “Se gli Usa vogliono far entrare Kiev nella Nato vuol dire che la guerra può essere portata alle frontiere della Russia. Non si può non tenere conto della percezione di Mosca”. Lei come la vede?
L’idea di uno statuto di neutralità dell’Ucraina a mio avviso non era da scartare, prima di quello che è successo. Però ad alcune condizioni che sono molto difficili da realizzarsi. La prima di queste condizioni è che lo statuto di neutralità lo dovrebbe chiedere l’Ucraina stessa. Non può essere imposto dall’esterno come si usava una volta. Inoltre si dovrebbe trattare di uno statuto di neutralità garantita internazionalmente e di uno statuto di neutralità accompagnato da garanzie d’integrità territoriale all’interno della quale si potevano immaginare forme di autonomia per il Donetsk e il Lugansk. Questa ipotesi che sulla carta era praticabile sino a qualche settimana fa, ormai è fuori dai radar, perché non ci sono più i presupposti. Sulla carta sarebbe stata una delle opzioni, sempre che avessimo convinto gli ucraini a chiedere lo statuto di neutralità. E aggiungo che la questione dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, è una scusa. Non è all’ordine del giorno, come è stato detto. Nessuno pensa realisticamente che l’Ucraina possa aderire anche perché Kiev non riempie le condizioni che sono necessarie per poter fare una richiesta di adesione. È un Paese che aveva e che avrà un conflitto all’interno del suo territorio, e questo non lo prevede lo statuto della Nato. Era chiaramente un motivo non fondato. Nessuno pensa realisticamente in Occidente che l’Ucraina potesse entrare nella Nato. Non lo potevamo mettere per iscritto, questa era l’unica difficoltà. Non potevamo accettare la condizione di Putin di chiedere una garanzia scritta e formale.
L’Europa si è ritrovata unita nell’adozione delle sanzioni contro la Russia. È una unità che può reggere o alla fine prevarranno di nuovo gli interessi nazionali?
In questa occasione, finora, e sottolineo finora, l’Europa è stata straordinariamente unita. Perché se io guardo all’esperienza degli anni passati, uno degli argomenti su cui era più difficile raggiungere il consenso tra i membri dell’Unione, era proprio quello dei rapporti con la Russia. Invece questa volta, di fronte alla violazione così flagrante di principi essenziali del diritto internazionale, della convivenza internazionale, è stato possibile raggiungere un accordo molto rapidamente. Però, attenzione: quello raggiunto sulle sanzioni, è un accordo molto circoscritto, molto limitato. Sono sanzioni per ora ad impatto molto limitato e con conseguenze limitate anche sulle economie di chi le ha adottate. Diventerebbe molto più difficile se dovessimo, in caso di una escalation sul terreno, passare all’adozione di sanzioni più pesanti. Che vuol dire soprattutto il tema dell’energia. Perché sappiamo che alcuni Paesi sono molto più dipendenti di altri dalle forniture di gas russo.
In questa disamina a 360 gradi, rimane da soffermarci sugli Stati Uniti. C’è chi mette in risalto la scarsa personalità in politica estera del presidente Biden. È così?
Su altre vicende l’amministrazione Biden si è dimostrata in effetti incerta e debole. Su questa vicenda, invece, il mio giudizio è positiva. Biden si è mosso in maniera efficace, credibile. Ha ottenuto un risultato straordinario che è stato quello di ricompattare la solidarietà euroatlantica. Una straordinaria solidarietà all’interno della Nato, su una linea di fermezza che non era affatto garantita o scontata. Da questo punto di vista il mio giudizio è molto positivo. Direi anzi di più: in questa vicenda Biden ha riscattato delle prestazioni che avevano messo in grosso imbarazzo il rapporto euroatlantico. Penso al ritiro dall’Afghanistan, all’improvvido annuncio dell’Aukus. Erano stati episodi che avevano lasciato un segno negativo nel rapporto tra gli Stati Uniti e l’Europa. In questo caso, no. In questo caso, Biden e la sua amministrazione hanno assunto la leadership della vicenda e hanno ricompattato un fronte occidentale che è rimasto finora straordinariamente unito e solidale.
E l’Italia? Molto si è scritto e anche ironizzato su un presunto ruolo di “pontiere” di Mario Draghi. Fuori da battute e da bassezze varie, l’Italia può giocare un ruolo significativo sul fronte ucraino?
L’Italia da sola no, mi sembrerebbe poco verosimile. L’Italia sì, se si muove all’interno del quadro delle sue alleanze tradizionali, come ha fatto finora. Senza svolgere un ruolo particolarmente profilato ma correttamente allineata sulle posizioni di partners e alleati. Sì se si muove in una concertazione stretta con i suoi alleati, sia nell’ambito della Nato, e quindi con gli americani, sia nell’ambito dell’Unione Europea. Aggiungo che finora l’Italia non ha brillato per particolare protagonismo. Si è mossa correttamente ma con un profilo relativamente basso.
Per restare all’Europa. In questa vicenda si è ricostituito un asse franco-tedesco?
Assolutamente sì. Ammesso che si fosse rotto in precedenza, il che non mi risulta. Si sono mossi in buona sintonia, Macron e Scholz. Di fatto hanno parlato a nome dell’Europa. Macron aveva forse una maggiore legittimazione in quanto presidente di turno dell’Unione Europea, ma di fatto sono stati i due leader che hanno condotto a nome dell’Europa l’interlocuzione con Putin, Il problema è che l’Europa dispone di mezzi limitati per intervenire in una crisi di questo tipo. Non ha strumenti militari propri e quindi è bene che rimanga strettamente collegata alla Nato. Lo strumento che può utilizzare l’Europa, e lo sta facendo, è quello delle sanzioni.
Quando si scomoda la Storia, come ha fatto Putin, tornando indietro di un millennio, facendo riferimento alla Grande Madre Russia e scomodando anche Lenin, non è un brutto segnale?
Sì, sicuramente è un brutto segnale. Perché se si va indietro nella storia si rischia di sovvertire un ordine costituito che è quello su cui si reggeva l’equilibrio faticosamente raggiunto dopo la fine della Guerra fredda. In effetti, quello che ha in mente Putin è proprio di rimettere in discussione l’assetto emerso in Europa dalla fine della Guerra fredda e dal crollo dell’impero sovietico. Questa è una rilettura della storia in funzione di un disegno di ricostruire un impero che si può ispirare a quello zarista o a quello dell’Unione Sovietica. E quindi di rimettere in discussione quella situazione di inevitabile indebolimento che era il risultato del fatto che dalla fine della Guerra fredda c’era stato uno sconfitto e un vincitore. Lo sconfitto era l’Unione Sovietica, e quindi la Russia.