La gazzarra tra partiti e la svolta necessaria
Lavorare in silenzio non basta, Draghi deve far sentire la sua voce

Ai tempi eroici della televisione in bianco e nero, Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi vararono uno spettacolo comico che concludevano chiedendosi: “Tu che ne dici?” e rispondendosi: “Io dico che pièce” Quel “pièce”, anziché “piace”, in finto barese attecchì e diventò un tormentone. Con Draghi, uguale. Senza usare il finto accento barese. Piace? Non piace? È come ve lo aspettavate? Meglio? Peggio? Così così?
Lievita il mormorio interrogativo di massa corale mentre si consumano i primi cento giorni di Draghi. Draghi deve essersi trovato di fronte a un dilemma: essere o non essere? Questo è un problema. Essere o apparire? Ecco: questo è un problema. Peggio ancora l’altro: apparire o non apparire? Mi si nota di più alla festa se sto dietro la tenda o se non vengo affatto e Draghi come strategia comunicativa ha cominciato con “meglio se mando avanti la Gelmini e mi mantengo in seconda fila. Bene: cura disintossicante dopo lo sproloquioloquioloquio (potete prolungare come col Lego) del Conte che quando si aggrappava a doppio petto col fazzoletto a tre punte e capello col ciuffo, ti partiva a manetta con i congiuntivi di nuova generazione, spavaldo di fronte alle scogliere di grammatica e sintassi, dizionario, sinossi, logica e metafisica, intrepido capitano su cavallo a dondolo, issato sulla tolda del Luna Park. Quel capitano ieri è stato preso a calci nel sedere dall’Europa – questa augusta signora – che ha fatto palline di carta e di cacca con i progetti di Recovery mandati dal suddetto Conte e dal di lui governo, tirando quindi lo sciacquone o flushing o catena del toilet. Tanta era la qualità dell’artefatto.
Torniamo dunque al nostro attuale presidente del Consiglio dei ministri che per la Costituzione italiana non può chiamarsi Primo Ministro né Capo del Governo. Draghi è stato da tutti considerato ed è l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, ma con un problema basale, ovvero una palla al piede: dover mantenere una maggioranza patchwork o arlecchinata, tenendo insieme tutti i pezzi come un giocoliere e dovendo fare almeno tre parti in commedia: l’amico di ciascuno, il tutore del principio di realtà, l’uomo pubblico di cui il pubblico ha bisogno perché in una democrazia scalcagnata come la nostra la leadership è un bene primario. La leadership ha due frontiere: al nord, confina con l’ “hombre fuerte” – il so tutt’io che comanda – e al polo opposto la tradizione democristiana secondo cui il premier meno si vede meglio è.
Questo è il problema dell’essere e non essere, apparire o non apparire. Che cosa ha fatto Draghi? Una cosa intelligente: ha scelto il bassissimo profilo non mettendosi in prima fila e poi, quando non ha potuto evitare di apparire alla sua prima conferenza stampa ha optato per un comportamento aristocratico. Che è l’opposto di quello plebeo. Il plebeo, quando va davanti al pubblico crede di essere bravo se scandisce dopo aver mandato a memoria, che detta sillabando pensando di essere popolare. L’aristocratico, come Draghi, parla invece simulando l’improvvisazione con pause di finta incertezza, onesti tentennamenti, qualche osservazione che sembra estemporanea ma geniale – “perché usare tante parole inglesi?” chiese l’uomo del “whatever it takes”? – e una compostezza corporea quasi cadaverica, se possiamo permetterci un aggettivo poco simpatico. Draghi come gli anglosassoni o le persone bien elevé, non gesticola. Tiene le mani giù e anche il suo volto esprime poco. Detta legge europea facendo un po’ il ganassa con l’Australia – che è fra i Paesi vittoriosi e virtuosi del Covid insieme a Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud e Taiwan – ma l’Europa con le sue eleganti signore in perfetta forma e tailleur sembra gradire un direttore d’orchestra italiano ma sperimentato, uno che come qualità più marcata ha proprio il fatto che non sembra molto italiano. Questo è un genere di italiano che ha avuto sempre molti seguaci all’estero.
E arriviamo alla parte dolente e problematica. Per colpa del precedente governo, delle dosi mancanti, della mascalzonaggine delle corporazioni e di molte Regioni che hanno mandato a morte certa alcune decine di migliaia di italiani cui è stato negato l’antidoto contro la morte, concesso mafiosamente a gagliardi e gagliarde quarantenni e anche trentenni, l’Italia è ancora nel pantano. Tutti gli sforzi per far credere che la curva si abbassi sono per ora falliti e crescono di sicuro la disperazione e i suicidi e le dimostrazioni, anche quelle meno sincere e paracule, come è nel carattere del nostro popolo. In un bel libro su Margaret Thatcher di Elisabetta Rosaspina si ricorda un fulminante giudizio della Prime Minister su Andreotti: «Riteneva che qualsiasi uomo integro fosse votato al ridicolo». All’estero, specialmente nei Paesi di lingua inglese, è diffusa la convinzione secondo cui alcuni politici italiani possono essere forse abili, ma raramente – anzi mai – devoti a princìpi. Draghi parte con handicap positivo: è ritenuto un uomo che crede nei principi, malgrado il grande battage con cui è stato attaccato in quanto “banchiere”. Ecco dunque – a nostro personale parere – il problema di fronte al quale si trova Draghi: se e come affrontare in Italia una domanda di leadership che viene dal basso ed è dettata da angoscia, incertezza, rabbia, disperazione, smarrimento eccetera.
Stare zitti? Parlare poco? Molto? Noi sappiamo che il suo predecessore – con nostro grande disappunto e repulsione – ha fatto il pieno di tutto ciò che offrivano i mezzi di comunicazione su cui ha costruito un castelluccio di consenso ottenuto comparendo senza freni sui teleschermi, anche durante le previsioni del tempo, sempre pensoso, deambulante fra stucchi e ori, o seduto di fronte a teleschermi spenti. Draghi questo non lo farà mai e snaturerebbe la sua natura se si forzasse. Ma a nostro parere qualcosa dovrà pur fare perché questo non ci sembra il momento buono per essere un banale presidente di un Consiglio di amministrazione di ministri, perché il Paese ha non soltanto bisogno ma diritto di sapere come stanno le cose e come si intende agire e anche con quale animo.
Chi decide come. Su quali dati. Perché. Che cosa pensa Draghi. Sì, tutti sappiamo che cosa pensi o dica perché le sue parole sono registrate. Ma non nelle case.- Non nella mente. Ha un team che si occupi della comunicazione che non ha nulla a che vedere con l’informazione? Comunicare significa trasmettere umori, sentimenti, o suscitarne. Puoi restare impassibile come Churchill e far scattare un moto d’orgoglio o di fiducia. Lì, per ora, ci sembra che si registri un vuoto e che questo vuoto sia determinato dalla necessità primaria di non sbilanciare l’isterica coalizione. Non mandare tutto per stracci. Sono, come dicono i concittadini di Draghi, cavoli amari. I dati che noi raccogliamo e siamo sicuri che siano ben noti al presidente del Consiglio, dicono che il Paese è entrato proprio adesso in una sofferenza acutissima che contrasta con il preteso ottimismo dei telegiornali che dovrebbero smetterla di accodarsi come camerieri a chiunque sieda a Palazzo. L’imparzialità e la qualità dell’informazione generale è molto bassa, rissosa, contraddittoria e superficiale e questo non è colpa di Draghi ma crediamo che il capo del governo debba fare qualcosa per far sentire la propria voce o almeno la propria influenza – se ce l’ha – in modo tale da produrre – insieme alla fiducia – la rassicurazione delle idee chiare, dei soccorsi che arriveranno anche se ancora non ci sono soldi in cassa, magari con iniezioni potenti sui conti correnti come fanno in Germania.
La certezza del denaro che dovrà tener vive le aziende e la certezza delle priorità dei vaccinandi che deve tenere vivi gli italiani, finora mandati in fumo nel camino per criminali criteri generazionali (la strage degli innocenti alla rovescia) nella totale indifferenza dei politici. Qui ci fermiamo per il rispetto che abbiamo per tutte le opinioni, ma non per le idiozie, le criminalità culturali e mentali, la cialtroneria imperversante su tutti i fronti. “Qua”, diceva Alberto Sordi nell’amaro Medico della mutua, “ci vuole uno pratico”. Ci sembra che Draghi sia stato chiamato perché è uno pratico. Ma la pratica del governo comprende anche le questioncelle dell’essere e dell’apparire, oltre che del governare emettendo o proponendo i giusti decreti, E abbiamo la strozzata impressione che ci sia poco tempo prima che la disperazione raggiunga il livello successivo, che preferiremmo sapere scongiurato.
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