La riprogettazione della città
L’avvertimento di Ciaramelli su Napoli: guai se al lockdown segue il disincanto

Ho l’impressione, ma spero di sbagliare, che dopo un iniziale entusiasmo post lockdown, l’interesse per una riprogettazione complessiva della città, a partire da una diversa gestione degli spazi pubblici, sia già scemato. Di sicuro, come qualche urbanista di consolidata esperienza aveva subito notato, c’era forse una eccessiva carica utopica in chi già immaginava come possibili nuovi assetti cittadini, nuovi equilibri tra centro e periferia. È vero, invece, che nonostante i piani e i progetti, in massima parte le città si ridisegnano in autonomia, ed è un’illusione pensare di poterle programmare nei minimi dettagli. Quante idee per Napoli sono state proposte in queste settimane? Nessuna è stata finora raccolta, di molte già non si parla più, e di altre si tornerà a discutere tra qualche anno, probabilmente negli stessi termini di oggi, a conferma di una ciclicità a cui è difficile sfuggire.
Il perché di tutto questo è nelle cose: non di questa città, ma di questo Paese. Non sono le idee che mancano, e forse neanche le risorse, ma le procedure per selezionarle, definirle e realizzarle. In breve, è il modello di governance che difetta. E in mancanza di questo, non viceversa, la città patisce la debolezza di una società civile disorganizzata o, per dirla alla vecchia maniera di Simmel, blasé, disincantata, nella migliore delle ipotesi riservata. In ogni caso, proprio per resistere il più possibile a questo andazzo e sperando ancora che a Napoli qualcosa di buono possa venire, ad esempio dalla ormai prossima conferenza programmatica del Pd – unico partito, bisogna ammetterlo, che almeno ci prova – può tornare utile, a titolo motivazionale, la lettura di un bel libro fresco di stampa, lo stesso in cui ho ritrovato Simmel e tantissime altre “fonti” sapientemente utilizzate.
Il saggio è di Fabio Ciaramelli, un napoletano, professore di Filosofia del diritto alla Federico II, firma nota a questo giornale. Si intitola “La città degli esclusi” (Edizione ETS) ed è una riflessione essenziale – di appena ottanta pagine – sulla doppia esclusione che si sta consumando sotto i nostri occhi. Il primo grande escluso è lo spazio pubblico (e questo è paradossalmente più evidente a Napoli, città che era destinata, nell’intenzione del sindaco, a diventare la Leningrado del “benecomunismo”). Il secondo grande escluso è invece il futuro, divenuto, dopo il Covid-19, ancora più «impensabile nella sua novità e imprevedibilità». Ciaramelli ricorda che dei due modelli di città realizzati in Occidente, quello che si fonda sull’origine (la polis greca) e quello che ha come principio di individuazione il fine (la civitas romana) noi abbiamo scelto il secondo: non il territorio chiuso, ma la società aperta.
E sappiamo tutti che Napoli, sebbene abbia la polis nel nome, nei secoli abbia poi fatto sua l’altra dimensione. Non a caso, tutto il ragionamento sviluppato nel libro, che è sempre generale e mai locale, interpretato da un’ottica napoletana si rivela particolarmente vivo e convincente. Ciaramelli parte da una citazione assai opportuna. È di Marcel Hénaff, antropologo e filosofo. Il passaggio centrale è questo: «Se la città si presenta come un mondo è, in primo luogo, perché viene percepita come l’espressione di forze capaci di rifare il mondo. La città oppone il mondo prodotto al mondo di prima sentito come dato». La città, insomma, è l’artificio assoluto, è – come già diceva Paul Ricoeur negli anni Sessanta – «il luogo in cui l’uomo percepisce il cambiamento come progetto umano; il luogo in cui l’uomo intravide la propria modernità». Ed ecco il punto. È ancora questa la dimensione in cui si colloca oggi Napoli? Quanta esclusione si avverte attraversando i quartieri, le classi, le generazioni? Prima che sia troppo tardi, Napoli deve trovare la forza di resistere al labirinto che l’attende.
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