Il decreto Semplificazioni ha riformato il delitto di abuso d’ufficio sostituendo, alla generica “violazione di norme di legge o regolamento”, la formula più nitida “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Così si è innescato l’ennesimo dibattito intorno a una delle figure di reato più controverse e discusse. Dall’antica formulazione del codice Rocco sino a quella attuale (provvisoria, in quanto soggetta a conversione in legge ed eventualmente emendabile) i numerosissimi interventi, giurisprudenziali, dottrinali e politici, ruotano in particolare intorno al tema della “discrezionalità” della pubblica amministrazione “assoggettata” a quella del sindacato giurisdizionale.

Le esigenze, dunque, del potere amministrativo mai si sono conciliate con quelle, legittime ma radicalmente opposte, di accertamento della legalità ravvisandosi in quest’ultimo, spesso, l’esercizio di funzioni di controllo dell’indirizzo politico e dell’autonomia del potere politico-amministrativo. Sia ben accolta, dunque, nel dibattito parlamentare che seguirà in fase di conversione, questa novella legislativa (l’unica degna di nota dell’attuale compagine governativa in tema di giustizia) che sottrae alla giurisdizione penale il controllo sulla discrezionalità dei pubblici funzionari che, altrimenti, continuerebbero a vedere limitate le proprie prerogative per il timore di sostenere, dovendo assumersene le responsabilità, iniziative di carattere amministrativo o politico.

La restrizione dell’ambito di operatività dell’abuso d’ufficio, disposta con il riferimento alla violazione di regole previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, appare necessaria alla luce dell’ampia discrezionalità concessa dai provvedimenti legislativi (in particolare dagli atti aventi forza di legge che rivestono carattere di urgenza) i quali impongono ai pubblici amministratori di non sottrarsi dal prendere decisioni che, spesso, divengono oggetto di imputazioni. Penso, quindi, che sia arrivato il momento di chiudere una lunghissima stagione di inchieste giudiziarie sfociate, in modestissima percentuale, in sentenze di condanna rispetto a decine di migliaia di procedimenti conclusi con assoluzione o archiviazione.

La nozione di “merito amministrativo”, costruita in decenni di interventi giurisprudenziali, ha fatto sì che il processo decisionale dei pubblici funzionari, soggetto a criteri generali di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, fosse limitato nel suo svolgimento dal sindacato giurisdizionale, con la conseguenza di un reale stallo della tutela degli interessi collettivi e dell’economia. Appare assolutamente comprensibile, difatti, che – a fronte del rischio di una iscrizione nel registro degli indagati, del pubblico disprezzo, della perdita di eventuali chance e della sospensione dalle funzioni se imputati – la scelta dei pubblici funzionari, specialmente se organi politici e collegiali, ricadesse sul “male minore”: la cosiddetta “fuga dal potere di firma”.

Ciò si verifica in quanto la funzione della giurisdizione, anche a livello mediatico, è da tanto tempo intesa e percepita non come funzione di ricerca delle patologie e delle avvenute violazioni della legalità ma come controllo preventivo della legalità; è intesa, quindi, non come accertamento di un illecito denunciato (sua naturale funzione) ma come preventiva “ricerca” dello stesso in una condotta e in un determinato fatto storico rientranti in un più ampio contesto avulso da quello oggetto dell’indagine penale. Ritengo, dunque, che la riformulazione dell’articolo 323 del codice penale possa contemperare le esigenze di chi vorrebbe vedere abrogata questa norma e chi, invece, sostiene il precedente dettato normativo e che risponda a più concrete esigenze di giustizia limitando la pervasività del potere giudiziario nelle scelte di quello politico e amministrativo.