In questi ultimi decenni, la “sicurezza dei cittadini” è diventata una priorità delle agende governative, alimentata da un clima di costante emergenza che finisce per assecondare il pregiudizio accusatorio quasi sempre prevalente nell’opinione pubblica. Non si tratta di una moda recente, ma con la destra di governo la tendenza agli inasprimenti punitivi è diventata la regola e la stessa parola “sicurezza” ha cambiato di senso.
Non indica infatti più la sicurezza sociale determinata dalle garanzie dei diritti sociali, ma solo la “pubblica sicurezza”, intesa come “tolleranza zero” e difesa dell’ordine pubblico dai reati che generano allarme sociale come le rapine, i furti in appartamento, il piccolo spaccio e tutta la microcriminalità, a cominciare dalle cosiddette “baby gang”. Eppure, i dati parlano chiaro: il numero dei reati più gravi, a cominciare dagli omicidi, è in costante diminuzione da oltre un secolo e lo stesso vale anche per reati di minore gravità come, ad esempio, gli scippi, i furti d’auto, i sequestri di persona, le rapine. Ciò nonostante, le carceri scoppiano. Perché? La risposta va individuata nell’uso demagogico del diritto penale, basato su due presupposti indimostrabili, ma di sicura presa su un’opinione pubblica incline al sospetto e al pregiudizio colpevolista per effetto di campagne politico-mediatiche interessate unicamente a propagare notizie sensazionali.
Il primo consiste nella convinzione, sostenuta da tutti i populismi, che la sicurezza dei cittadini sia messa in pericolo principalmente dalla criminalità di strada e che l’inasprimento punitivo nei confronti del genere di reati ad essa associati rappresenti la soluzione migliore e più efficace. Per smentire questa convinzione è sufficiente citare il “boom carcerario” degli ultimi anni, che non ha certo risolto il problema, ma ha rappresentato solo una fondamentale risorsa propagandistica e priva di effetti deterrenti. Il diritto penale ha una reale efficacia intimidatoria nel caso dei reati come l’omicidio e la violenza contro le persone oppure contro la criminalità organizzata, ma la sua efficacia viene meno proprio nel caso della microcriminalità, i cui protagonisti – spesso individui emarginati o esclusi – quasi sempre ignorano l’inasprimento delle pene destinato a colpirli. In casi come questi, l’intervento penale non può che avere un carattere sussidiario, mentre politiche sociali volte a eliminare i fattori di esposizione sociale alla delinquenza potrebbero essere, almeno in prospettiva, ben più efficaci.
Il secondo presupposto si basa sull’idea che non solo il diritto penale sia in grado di prevenire i reati, ma che lo sia in misura direttamente proporzionale all’entità delle pene e alle procedure antigarantiste messe in atto. Dal 2021 a oggi in Italia il numero dei detenuti è cresciuto in modo costante. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia, il 30 giugno del 2024 erano circa 10.200 le persone recluse in più rispetto alla capienza delle strutture. Eppure, nonostante l’aumento del numero dei detenuti e l’aggravamento delle loro condizioni di vita, si pensi solo alla tragica piaga dei suicidi in carcere, appare evidente che la “deriva punitiva” non funziona e non fa che alimentare il dispositivo, ci si perdoni il neologismo, “carcerogeno”, visto che l’allarme di larghe fasce della popolazione per le minacce vere o presunte portate alla “sicurezza” non accenna a diminuire.
Quando i reati sono legati alla povertà, all’emarginazione e alla tossicodipendenza l’efficacia intimidatoria del diritto penale è pressoché nulla. Questo non significa che le risposte penali non siano necessarie, se non altro per evitare ritorsioni o vendette private. Ma pensare che siano l’unica soluzione è illusorio, e i dati relativi al sovraffollamento carcerario lo dimostrano. Sarebbe invece più umano e più efficace promuovere politiche sociali di inclusione e di integrazione piuttosto che politiche penali di esclusione e di repressione.
Entrambi i presupposti si basano sul rilievo prioritario assegnato al diritto penale, ed entrambi servono a sgravare la politica dalle proprie responsabilità, facendo in modo che l’opinione pubblica perda di vista l’incapacità dei governi di affrontare i problemi alla radice, agendo sulle cause prima che sulle conseguenze. È per questo che risulta quanto mai essenziale contrastare la tendenza delle forze populiste a incoraggiare il tendenziale colpevolismo che circola nella pubblica opinione e promuovere una politica culturale impegnata a difendere i valori dell’uguaglianza e della legalità, nella prospettiva di una rifondazione dello Stato di diritto e di un diritto penale garantista e non giustizialista.