L’errore da non commettere quando si parla della situazione delle carceri italiane è quello di fare ricorso al termine “emergenza”. Perché quando lo si fa, e accade molto spesso, si nega la vera natura del problema.
Non occorre compulsare un dizionario per capire che ci si riferisce a un’emergenza quando si ha a che fare con una circostanza imprevista. Ebbene, il sovraffollamento degli istituti di pena e le conseguenti condizioni indegne di detenzione non hanno proprio nulla di imprevisto. L’emergenza, semmai, scatta nell’agenda pubblica quando – in seguito a rivolte e tragici suicidi – proprio non si può fare a meno di affrontare l’argomento. Allora ecco che si sciorinano i noti luoghi comuni e le frasi fatte, che non voglio ripetere. Non perché quei motti e princìpi non siano giusti e capaci di rappresentare il problema, ma perché trovo che ormai sia divenuto addirittura offensivo ripeterli.
Se emergenza non è, e non lo è, allora dobbiamo fare i conti con qualcosa che non funziona. E non giova prendersela solo con quei cattivoni dei politici, perché la responsabilità va invece ricercata in modo più ampio e diffuso a livello dell’intera società. Certo, chi ha responsabilità di governo e l’onere di amministrare la cosa pubblica – oggi come ieri – avrebbe anche il dovere di adoperarsi in modo concreto ed efficace, ma dobbiamo anche capire quale sia il vero motivo per cui la politica resta invece generalmente inerte, salvo invocare periodicamente la leggendaria emergenza.
La settimana scorsa in questa rubrica ho provato a parlare dell’odio. A quel proposito avrei voluto far cenno anche alla situazione delle carceri, ma mi sono resa presto conto che sarebbe stato più opportuno dedicarmi a questo collegamento separatamente. Che c’entra dunque l’odio con le carceri affollate? C’entra, eccome. Perché l’inerzia della politica si fonda su un problema di consenso. Occuparsi delle carceri e delle condizioni dei detenuti, infatti, non fa vincere le elezioni e quindi la gran parte dei politici ritiene che l’argomento non sia centrale. Un grave errore, perché interrompere il circolo vizioso delle recidive è l’unico modo per garantire maggiore sicurezza ai cittadini. E questo sì che farebbe vincere le elezioni. Si pensa però sempre al breve periodo. In termini, ci risiamo, emergenziali. Mettendo toppe, facendo comunicati zeppi di buone intenzioni, per poi rimandare e rimandare ancora.
Ma l’odio? Eccolo qui: il dibattito avvelenato da questo sentimento, associato all’insicurezza che i cittadini percepiscono – non solo nelle strade ma anche nelle loro case – genera nei confronti degli autori dei delitti un desiderio che è di pura vendetta e non, come dovrebbe essere, di ferma, severa e civile giustizia. Moltissimi, questo è il punto, non solo vogliono i colpevoli in prigione ma vogliono anche che lì stiano male. Malissimo, il peggio possibile. L’idea che, non so quanto inconsapevolmente, prende corpo è quella che confonde la detenzione con la pena corporale, tale che l’espiazione sia vera e propria sofferenza fisica. La politica (riferiamoci così, in senso generale, a tutti coloro che dovrebbero prendere delle decisioni in merito) è ben consapevole di questo. E anche se non sempre condivide, sceglie di esporsi sul tema il minimo indispensabile. Per questo parlare di carceri come di un’emergenza non è solo un errore, ma anche e soprattutto un atto di viltà.