La testimonianza
Le carceri vanno ripensate da chi le conosce e ci entra, non dai politici acchiappa click

Sono un dirigente generale penitenziario in quiescenza dal 1° marzo. Penso ai compagni di viaggio lasciati negli istituti: poliziotti, educatori, assistenti sociali, tecnici, amministrativi, insegnanti, formatori professionali, i volontari, gente incredibile e generosa, le cooperative sociali e le aziende, che portano in carcere il lavoro vero, professionalizzante e retribuito, come da Ccnl, seppure le carceri non sono state immaginate dai palazzinari delle grate per il lavoro vero: già malamente rispettano la sicurezza dei lavoratori penitenziari e questi giorni di Covid-19 ce lo ricordano drammaticamente. Penso ai Cappellani, tenuti anche a conoscere gli Dei degli altri. Un melting pot di persone libere e prigioniere, donne e uomini, a volte anche bambini, con le loro storie e speranze.
Speranze minime, che si alimentano di un colloquio visivo e una telefonata con i familiari, oppure di uno sguardo, una parola o un semplice saluto dell’operatore penitenziario: sperano tutti di poter rivivere un futuro senza sbarre. Una libertà spesso senza famiglia, talvolta neanche la casa, da titoli di coda, dura come la pietra del vituperio. Due comunità che si fondono, perché le reazioni chimiche non fanno distinzioni, come il Covid-19. Ne sono uscito. Sopravvissuto all’uragano, dopo 38 anni tutti sul pezzo, ma lì ho pure visto tanti perdersi, morire. Quello che accade l’avevo preconizzato.
Non per intelligenza ma perché stavo lì, ero uno di loro: mi era facile comprendere l’insonnia del direttore di fronte all’ammassamento di detenuti e la penuria di operatori, o la tensione del poliziotto solo in sezione, la lotta del medico per impedire la fuga della vita di un detenuto appeso su una grata, o l’ansia dell’educatore in attesa del rientro di un ristretto dal primo permesso, o la soddisfazione di un’assistente sociale che ha trovato un tetto per un liberando. Mondo di ferro e architetture approssimative, non chiuso ma soltanto sconosciuto, anche ai big della politica dei “like” e, non di rado, allo stesso board supremo amministrativo: lo dimostrano le norme “di pancia”, più volte contraddittorie e superficiali, concentrati di incompetenza e disumanità, che sono state rovesciate negli anni sugli operatori penitenziari: norme che seppelliscono altre norme, per poi essere a loro volta tumulate dalle nuove, tecnica furba e malvagia.
Sono stato fortunato, perché la Fortuna è cieca, come la stessa icona della Giustizia, ed il mio pensiero va ad Enzo Tortora ed alla sua Passione: il periodo pasquale me lo consente. Le carceri sono in fibrillazione, gli operatori si sentono abbandonati, esposti ai rischi, destinatari di ordini spesso percepiti come impossibili. Gestire la pena è, in fondo, governare le distanze: fisiche e del tempo; ma è anche raccontare lo Stato che si fa esempio ed è qui che rischia di rovinare: come può essere credibile, in tempi di Covid-19, sostenere il primato del distanziamento sociale fuori le mura del carcere e non riconoscerlo, nello stesso tempo, all’interno delle stesse? Come si può, di fronte alle immagini ripetute di bare scortate dall’esercito, non affrontare risolutamente anche il tema delle carceri e dei “posti letto” nelle cosiddette camere di pernottamento (il termine cella, per disposizione dall’alto, è stato abolito)?
Ai Direttori, ridotti ad un manipolo (si sa, è sempre fastidioso ricordare le carenze degli organici ai Ministri: cose burocratiche, i “public servant all’italiana” sono tutti dei “fannulloni”…), esorto di resistere. Pure se dirigono, contemporaneamente, due o anche tre carceri in città diverse, pure se in questo di “Stato di eccezione”: siate forti. Dovete, ancora una volta, placare gli animi dei detenuti e dei custodi. Ispiratevi a Marco Pannella a come, fino alla sua morte, insieme ad altri amanti del diritto che si fa carne, abbia fatto da paciere, invocando il primato della forza della ragione alla ragione della forza. Il Covid-19 è anche un Covid normativo penitenziario e la verità non tarderà ad emergere.
Le carceri vanno ripensate; ne va rivista l’architettura; vanno reingegnerizzate, le norme riformulate in una visione europea e non di borgata; il carcere deve essere realmente extrema ratio (davvero c’è bisogno di circolari dei procuratori-capo della repubblica?) ma, anzitutto, la gestione delle prigioni, dalla periferia al centro, deve essere affidata alla dirigenza penitenziaria di ruolo e nelle sue diverse multiprofessionali espressioni. Chi operi ai vertici del sistema penitenziario dovrà conoscerlo per davvero dovrà entrare negli istituti e scoprire cucine nei seminterrati, infermerie non a norma, docce comuni mal funzionanti, corridoi stretti e celle di ringhiera, slum con camere di pernottamento gonfie di umanità impilata; in caso contrario, sprechiamo solo parole.
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