Letture
“Le dedico il mio silenzio”, Vargas Llosa insegue il fantasma della musica per salvare il Perù
L’ennesimo capolavoro: l’intreccio tra una chitarra, un mistero e l’anima di un paese Il grande scrittore annuncia che sarà il suo ultimo romanzo (e tutti speriamo di no)
Che bellezza quando tra i tanti romanzi di oggi ci si trova tra le mani un esempio di grande letteratura. Paolo Di Paolo su Robinson ha scritto che il modello di Mario Vargas Llosa sia nientemeno che Gustave Flaubert e ha ragione in due sensi: come Flaubert anche il grande scritture peruviano mette al centro un eroe romantico tutto sommato o banale o un po’ strambo – che è poi un altro modo di essere normale – attorno al quale tutta la storia gira; e la seconda analogia è che – come l’autore di “Madame Bovary” – anche Vargas Llosa lavora, come piallandola, sulla singola frase, anzi sulla singola parola, per infondere ad essa il massimo della sua potenza espressiva.
E dunque ci siamo già capiti: questo “Le dedico il mio silenzio” di Mario Vargas Llosa (Einaudi, traduzione di Federica Niola) è un gran romanzo che nella sua particolarità si accosta ai capolavori del premio Nobel per la letteratura 2010 (qui, oltre ai più classici, pensiamo ad “Avventure della ragazza cattiva“, 2006), che verso la fine ci lascia con un annuncio speriamo non vero, e cioè che – dopo un saggio su Sartre – egli non scriverà più. Ma intanto godiamoci questo ennesimo capolavoro ove si intrecciano tre elementi: una chitarra, un mistero, l’anima di un paese (il Perù).
La storia narra di un intellettuale piuttosto eccentrico che si chiama Toño Azpilcueta (cognome basco ma il padre era italiano), un tale che s’interessa della musica tradizionale peruviana – il romanzo è anche un trattatello di etnomusicologia – ma è un emarginato, e anche povero (la moglie fa la lavandaia per sbarcare il loro lunario), che un giorno fa una scoperta che lo sconvolgerà: va ad ascoltare un chitarrista sconosciuto, tal Lalo Molfino, mai sentito prima, che suona in maniera assolutamente divina, oltre qualunque immaginazione. Ma chi è questo Lalo? Nessuno lo sa. Ed ecco il nostro eroe, Toño Azpilcueta, che – ricevuti da un generoso amico i soldi necessari – si mette in testa di saperne di più su questo chitarrista eccezionale per trarne un libro. Lalo però è morto, e nulla si sa di più di lui.
Qui comincia l’indagine di Toño ed entriamo per questa via nel vivo del romanzo. Scopriremo giusto qualche cosa di Lalo Molfino, mentre Vargas Llosa si inoltra, come detto, in un groviglio di considerazioni sull’“anima musicale-spirituale” del suo paese. E qui sta il nocciolo dell’avventura intellettuale di Toño e dunque del libro: dimostrare che la musica popolare peruviana può condurre addirittura alla unificazione morale e alla pacificazione nazionale del Perù, un paese diviso e percorso da violenza. «Come mai nell’ultimo decennio il Perù era sprofondato in quella guerra fratricida che si lasciava dietro ogni giorni un mucchio di morti? Perché Sendero Luminoso occupava i paesini sperduti sulle montagne o faceva scoppiare bombe nelle città delle Andrea, o persino a Lima, se le vittime erano tutte peruviane? Non c’era forse bisogno più che mai di un libro che riunificasse il Perù?».
Dunque, la musica come vettore politico. Ecco perché «un libro sul Vals criollo e su quella figura sconosciuta che aveva deciso di aggiustare e mettersi a suonare quella chitarra, il grande strumento del valsecito che era diventato il simbolo della musica peruviana». Con questo spirito, Toño Azpilcueta riesce dunque a scrivere il suo libro, pur nelle difficoltà economiche e soprattutto tra le spaventose crisi nervose che lo attanagliano da sempre – gli incubi dei ratti, qui forse c’è una reminiscenza kafkiana – che ha dapprima un insperato successo ma poi con le successive, ridondanti, visionarie edizioni, va incontro a un crollo definitivo. In tutto questo fanno capolino personaggi o eccentrici o sublimi, come la cantante Cecilia Barraza di cui Toño è da sempre innamorato ma che sarà (è sentenza di lei) solo un’amica, fino alla fine.
Cosa ci dice dunque Vargas Llosa in “Le dedico il mio silenzio” (questo titolo criptico)? Qual è il senso che ne traiamo? Che ci sono, tra le sozzure del mondo, l’amore e l’amicizia a proteggerci dai “ratti” fisici e immaginari che ci passano davanti a ogni passo: l’amore imperituro tra due amici di Azpilcueta, Toño e Lola, è lì a riscaldare il cuore del nostro eroe, esempio persino inconcepibile di un sentimento indistruttibile malgrado le convenzioni sociali. E poi anche Toño è amato dalla moglie Matilde che rispetta il travaglio intellettuale del marito al punto di sostenerlo economicamente lavando e cucendo; e, da amica, pure la splendida Cecilia (chi non ha mai amato un’amica?) lo circonda di un affetto che all’amore un po’ somiglia. Ma Vargas Llosa va oltre, alla ricerca di una soluzione definitiva per salvare l’anima del Perù e il futuro dei suoi abitanti, e questa “soluzione” è nel passato, nelle radici, nell’antropologia di un popolo particolare come quello peruviano dove Africa, Europa e Oriente si sono incredibilmente fusi a partire dalla musica. Che forse potrebbe salvare quel paese, e il mondo, chissà.
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