La banda dei cronisti giacobini
Le dieci risposte che Marco Travaglio e i suoi ragazzi non sanno dare
La banda dei cronisti giacobini è brava a rivolgere domande retoriche a Berlusconi, ma inciampa e balbetta se si cimenta nelle risposte che il governo italiano dovrà fornire alla Commissione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sulla regolarità del processo che condannò il leader di Forza Italia a quattro anni per frode fiscale. Il direttore del Fatto Marco Travaglio, troppo impegnato nel difendere l’indifendibile Davigo senza far troppo male agli altri suoi magistrati preferiti Ardita e Di Matteo, passa la palla al vice-giacobino Barbacetto. Se ne sarà già pentito, supponiamo, perché il vice non è proprio capace, poverino. Intanto a tre domande su dieci non risponde, a una dice “si”, alle altre fa commentini sarcastici del tipo “l’eterna strategia di fuga dal processo” oppure “molti anni” o “erano fatti diversi”. Si sarà stancato, povero ragazzo.
Cominciamo con il dire che la notizia è che la Cedu ha accolto il ricorso presentato da Silvio Berlusconi dopo che la condanna a quattro anni di reclusione, ma soprattutto a cinque di interdizione dai pubblici uffici, avevano determinato la sua espulsione dal Senato e il suo affidamento ai servizi sociali. È vero che sono passati otto anni da quei giorni e che la decisione di oggi potrebbe anche avere a che fare con la slavina che sta trascinando inesorabilmente verso il basso la magistratura militante in Italia. Ma il fatto rimane e il procedimento è iniziato e pende a Brescia anche la richiesta di rifare daccapo il processo. Anche perché la verità storica merita finalmente di emergere.
Come dimenticare la fretta di quei giorni? Tutto è andato di corsa. Chi dice che la giustizia italiana è lenta non conosce le inchieste contro Berlusconi. Guardiamo le date dell’unico processo in cui sono riusciti a condannare l’uomo politico più inquisito del mondo. Il primo grado si conclude con una sentenza di condanna il 26 ottobre 2012, l’appello l’8 maggio 2013 e la cassazione il primo agosto dello stesso anno. Dieci mesi per tre gradi di giudizio. Che hanno cambiato il quadro politico, impallinando la parte liberale e riformatrice del centro-destra con un’interpretazione restrittiva della Legge Severino. Che hanno avuto come protagonisti anche il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, che si era affrettato a dire che la sentenza era immediatamente eseguibile, e il segretario del Pd Matteo Renzi che aveva pronunciato il famoso “game over”.
La scelta dei tempi è fondamentale in questa vicenda che ha cambiato il corso della storia. Cominciamo con il ricordare quel grande prestigioso quotidiano che nel mese di luglio 2013, appena due mesi dopo l’appello, cominciò a dissertare di allarme prescrizione per il processo Berlusconi e dell’importanza dell’ interdizione del medesimo dai pubblici uffici. Qua e là lasciando intendere, forse suggerendo, che per mettere al riparo il processo lo si sarebbe potuto affidare per tempo alla sezione feriale della cassazione. Quel che poi succederà, guarda caso. Si corre, si corre sempre, quando si tratta dell’uomo politico più inquisito del mondo. Ed è inutile che il giudice Esposito, che poi fu il presidente di quella sezione che pronunciò la condanna definitiva di Berlusconi e che fissò la data di udienza il 30 luglio ritenendo che la prescrizione scattasse il primo agosto, si difenda dicendo che lui non sapeva che nel frattempo la corte d’appello di Milano avesse segnalato altre date di scadenza, cioè successive al 14 settembre. Se la comunicazione di rettifica di quelle scadenze era stata inviata, con due diverse note del 5 e dell’8 luglio, non c’era forse tutto il tempo per restituire le carte alla sezione competente per materia perché giudicasse con una conoscenza specifica di quella tipologia di reati che forse i magistrati della feriale potevano non avere? O forse solo ai politici si può imputare il “non poteva non sapere”?
Questo punto è l’oggetto della domanda numero uno che la Cedu ha posto al governo italiano: era regolare l’assegnazione alla sezione feriale della cassazione? Si, risponde il vice-giacobino del Fatto, perché così la pensa il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il quale avrebbe effettuato puntuali ricerche nell’ambito di uno dei tanti processi aperti dal giudice Esposito contro alcuni giornalisti, quello che accusava di vilipendio Piero Sansonetti. Che è stato archiviato, ma che è diventato occasione per mettere alcuni puntini sulle “i” e soprattutto tentare di mettere una pietra tombale sulle parole di qualcuno che non c’è più, e cioè quello che era stato il relatore nel processo, il giudice Amedeo Franco che, in diversi incontri, da lui stesso sollecitati con l’intermediazione di Cosimo Ferri, con Silvio Berlusconi, aveva ripetutamente detto frasi del tipo “hanno fatto una porcheria, perché che senso ha mandarla alla feriale”?
La procura di Roma ha fatto un “bel lavoro”. Tanto che, secondo il Fatto, questa attività investigativa, veramente sproporzionata per un processo di diffamazione a mezzo stampa ( o vilipendio), potrebbe servire da base all’avvocatura dello Stato per rispondere picche alla Cedu. “Bel lavoro” per screditare la testimonianza registrata nel 2016 del giudice Franco (deceduto nel 2019), ma poco utile nella motivazione, perché gli stessi procuratori romani che ci hanno lavorato non sanno spiegare il motivo per cui il giudice Franco ha voluto incontrare il presidente Berlusconi e fargli quelle rivelazioni. Né la ragione per cui, all’interno della camera di consiglio, lo stesso avesse tentato maldestramente di registrare la seduta. Così le indagini della procura di Roma restano solo un piccolo tentativo di dare una mano.
Ma la risposta al primo quesito ne porta con sé subito un’altra, sui diritti della difesa. Perché questa, sempre per la fretta, non ha avuto diritto ai trenta giorni previsti per preparare le proprie deduzioni, essendo i giorni stati ridotti a 20. Il che si può fare solo se c’è l’immediato rischio prescrizione. Ma qui il cane si morde la coda, perché abbiamo visto che il rischio non c’era, come correttamente sottolineato dalla corte d’appello di Milano con le sue due note alla cassazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo si domanda anche, e ne chiede conto al governo italiano, se l’imputato Silvio Berlusconi sia stato “giudicato da un tribunale imparziale”, visto che il presidente Esposito, subito dopo la sentenza, ma prima della deposizione delle motivazioni nella cancelleria del tribunale, aveva reso dichiarazioni al giornalista Antonio Manzo del Mattino di Napoli, che aveva titolato “Berlusconi condannato perché sapeva”. Come a dire che, pur non avendo il leader di Forza Italia nessun incarico in Mediaset e non avendo firmato il bilancio e di conseguenza non avendo potuto macchiarsi di quella frode fiscale di cui era accusato, però “non poteva non sapere”. Siamo sempre lì. C’è sempre qualcuno, il giudice magari, che può “non sapere”. Ma gli altri no.
Speriamo che il governo, quando risponderà alla Cedu, non ascolti le sirene del Fatto, ma ricordi che in seguito a quelle dichiarazioni e allo scoop del Mattino, il giudice Esposito aveva querelato il cronista e il quotidiano, chiedendo due milioni di euro di risarcimento. Ma aveva clamorosamente perso la causa. Cosa che gli uomini di Travaglio tengono ben nascosta. “Un articolo vero nel titolo e nel contenuto –avevano scritto i giudici napoletani- rispettoso del pensiero e delle considerazioni espresse dal soggetto interessato”. Questi sono fatti. Così come, per venire alla domanda numero dieci, l’ultima cui il vice giacobino di Travaglio non sa rispondere, se non balbettando “sono fatti diversi”, è opportuno ricordare che esiste un principio sacrosanto del diritto che afferma “ne bis in idem”, non sarai giudicato due volte per lo stesso fatto. E Berlusconi era stato già assolto due volte dall’accusa di frode fiscale nel processo Mediatrade e nell’inchiesta sui diritti tv. Proprio come è stato assolto nel processo Mediaset Fedele Confalonieri, quello che aveva firmato il bilancio incriminato. Ma è sempre Berlusconi, come già un tempo Bettino Craxi, quello che non poteva non sapere.
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