Nel Si&No del Riformista spazio alle dimissioni da commissario tecnico della Nazionale da parte di Roberto Mancini. Ha fatto bene? Favorevole il direttore Andrea Ruggieri secondo cui “da tempo non si sentiva sostenuto, ora è di nuovo (legittimamente) sul mercato“. Contrario invece Alberto Gafurri. “Che delusione, adesso siamo senza una guida” il commento.

Qui l’articolo di Alberto Gafurri:

Quell’abbraccio con Gianluca Vialli sull’erba di Wembley, io, non lo scorderò mai. Insieme all’urlo liberatorio di Marco Tardelli dopo il 2-0 sulla Germania e, in anni ben più recenti, subito accanto al rigore calciato da Fabio Grosso a Berlino nell’indimenticabile estate del 2006, nella mia testa quell’immagine è e resterà per sempre una tra le più significative di ciò che nei miei quasi 46 anni di vita la nazionale azzurra ha rappresentato.
Con la maglia dell’Italia addosso, Roberto Mancini la differenza in campo non l’ha fatta granché; Giuseppe Giannini prima e Roberto Baggio poi l’hanno di fatto relegato in secondo piano negli anni in cui, in campionato, faceva invece vedere cose egregie, da manuale del calcio e forse anche oltre.

Un’era geologica più tardi, quando fu chiamato in panchina a rimettere insieme i cocci dopo la mancata qualificazione ai Mondiali 2018, la musica, però, è stata fin da subito un’altra. Dopo Fiorentina, Lazio, Inter, Manchester City, Galatasaray e Zenith San Pietroburgo, l’essere diventato commissario tecnico di un’Italia desiderosa di rilanciarsi ne aveva fatto un simbolo vero, con tanto di spot pubblicitari a rafforzarne l’immagine e i primi, importanti, risultati sul campo a far entusiasmare gli italiani, sottoscritto incluso.
Un entusiasmo genuino, spontaneo, pieno di fiducia quello scatenato dal nuovo ct, nel mio caso frutto dell’ammirazione sconfinata per quella Sampdoria di cui era stato bandiera e tanto grande da superare perfino l’atavica rivalità che nella testa d’un comasco doc com’io sono ricorda come fosse ieri la semifinale di Coppa Italia 1986 persa per colpa di una monetina lanciata dagli spalti del Sinigaglia.
Amarcord a parte, il successo di Londra fu l’apice di quella passione, il naturale sbocco di un Paese fatto di 60 milioni di allenatori che mai come in quella circostanza sposarono la causa non dividendosi tra pro e contro. A Mancini, non a caso, si perdonò perfino la cocente insoddisfazione della mancata qualificazione in Qatar, un’onta scivolata via quasi senza scalfirlo a riprova del rapporto ormai consolidato tra l’Italia e il suo commissario tecnico.

È essenzialmente partendo da quest’ultima considerazione che non riesco proprio a metabolizzare l’ormai famosa pec con cui il Mancio mi ha fatto andare di traverso l’anguria di Ferragosto. Tra una costina da addentare in famiglia e un salamino da abbrustolire sulla piastra rovente, infatti, ascoltare le ricostruzioni più o meno realistiche sorte attorno a questa decisione ha avuto l’unico vero risultato di lasciarmi l’amaro in bocca.
Delusione? Di sicuro, perché la familiarità con la quale ero solito guardare l’ormai ex tecnico della Nazionale s’è di colpo sgretolata davanti alla freddezza di un abbandono che – e so di scrivere una castroneria, ma l’iperbole rende bene – m’ha lasciato quasi orfano di una guida.
Che siano state divergenze insanabili con i vertici della Federazione, oppure il dorato richiamo di un calcio che sta velocemente spostando baricentro e interessi a quest’ultimo intimamente collegati, a me, in verità, poco importa.
La ferita sta nell’aver lasciato un treno in corsa senza guida, nell’aver abbandonato la nave prima che tutto l’equipaggio fosse messo in salvo, nell’aver lasciato la sposa a due passi dall’altare. Nel momento del sì o del no, del resto, sono i dettagli a fare la differenza. Chi subentrerà, a questo punto, poco importa. Abbandonarsi in quelle mani sarà difficile. Per me, come per molti altri.