La nomina di Pedro Sanchez a primo ministro di Spagna ha riportato in auge il tema della Catalogna. Junts per Catalunya, il partito di Carles Puigdemont, è stato decisivo affinché il leader socialista raggiungesse la maggioranza assoluta del Congresso. L’accordo ha però comportato condizioni dure per il Psoe. La più importante delle quali è l’amnistia per i condannati dopo il referendum secessionista del 2017, dichiarato incostituzionale. Elemento caro a Puigdemont, fuggito dalla Spagna per evitare la giustizia di Madrid. La questione ha diviso l’opinione pubblica spagnola, ma divide la stessa Catalogna, che non è tutta secessionista e dove la convivenza resta un punto interrogativo. Ne abbiamo parlato con due personalità che rappresentano le due visioni opposte. Elda Mata Miró-Sans, presidente della Societat Civil Catalana, impegnata nel promuovere l’unità di Madrid e Barcellona, e il professor Josep Costa, giurista ed esponente di spicco del movimento indipendentista.

Conversazione con Elda Mata Miró-Sans, presidente di Societat Civil Catalana, l’associazione che promuove l’unità di Spagna e Catalogna.
Presidente Mata, cosa ne pensa dell’amnistia?
«Lo scopo degli indipendentisti è dimostrare che c’è stata una guerra sporca e che loro sono stati condannati per reati che non esistono, porre in dubbio che il sistema giuridico in Spagna sia basato sulla divisione dei poteri. Se questi delitti non sono esistiti, allora significa che la dichiarazione unilaterale di indipendenza non era illegale. E si finirebbe per aprire le porte alla secessione e all’impunità. Il Partito socialista diceva che l’amnistia era incostituzionale. Ma ora ci sarà per sette voti. E l’esecutivo in pratica sta dicendo ai giudici che deciderà su delitti e si punta a commissioni politiche che valutino le sentenze. Finisce l’indipendenza dei giudici».
E sulle tasse?
«Hanno deciso che vorrebbero tutte le imposte catalane in Catalogna perché vogliono costruire una nazione. Nel 2017 dicevano di avere gli strumenti per essere indipendenti, ma non l’avevano, specie dal punto di vista economico. La Costituzione ha però come principi uguaglianza e solidarietà fra tutti gli spagnoli. E non dimentichiamo che il debito della Catalogna può essere finanziato grazie alla stabilità garantita dalla Spagna, non per la fiducia nel sistema catalano. Anche le pensioni non sarebbero tollerabili senza il contributo di Madrid».
Cosa sta facendo il nazionalismo?
«I nazionalisti spingono affinché tutto sia nazione. Tutto è definito “nazionale”, dalle scuole ai musei, perché questo fa sì che il passo successivo sia la creazione di uno Stato. Agli indipendentisti non importa delle persone che non sono nazionaliste. La maggioranza sociale in Catalogna non è per la secessione, però la legge elettorale fa sì che la parte profonda e più indipendentista abbia un peso maggiore».
A livello sociale però indubbiamente c’è una certa presa.
«I nazionalisti vogliono nazionalizzare la Catalogna e hanno fatto il possibile per entrare nel sistema culturale ed educativo. I partiti nazionali gliel’hanno lasciato fare. Pensiamo alla lingua. Prima si parlava di spagnolo e catalano, adesso i nazionalisti parlano solo di catalano e in catalano. E oggi vediamo che tanti ragazzi non parlano più bene lo spagnolo, e questo riduce il talento in Catalogna. Al punto che molte aziende se ne vanno. Inoltre, i nazionalisti hanno fatto capire agli immigrati, sia di altre parti della Spagna che stranieri, che l’ascensore sociale era veloce se usavano il catalano. L’obiettivo delle persone è di sentirsi accolte: gli indipendentisti hanno sfruttato questa aspirazione».

Qual è stato l’errore della sinistra e della destra?
«I socialisti hanno pensato che Esquerra fosse più di sinistra che indipendentista. Il Partito popolare pensava che Junts fosse più di destra che secessionista. Non è così».
Rischia di semplificarsi tutto tra destra anti-indipendentista e sinistra a favore?
«Non è un tema di destra e sinistra. La nostra associazione, per esempio, è trasversale e l’obiettivo è il rispetto dello stato di diritto. La costituzione permette che esistono anche partiti che vogliono un altro ordinamento. Non si pensava però che un partito come il Psoe, da sempre costituzionalista, desse ai partiti minoritari le chiavi della stabilità della Spagna».
Cosa non hanno capito a Madrid?
«Tanta gente non ha capito per molti anni cosa accadesse in Catalogna. Nella transizione, molti professori che non parlavano catalano furono mandati via. Nelle province c’era molta pressione: io stessa ho subito segnalazioni e atti di vandalismo. Ne parlavo con amici a Barcellona ma qui non lo capivano, perché la grande città dà l’anonimato, mentre fuori c’era omertà. Molti preferivano non avere problemi nel lavoro o nella vita quotidiana, per esempio parlando solo in catalano.
Cosa avete proposto come associazione?
«Al Psoe di guardare nella propria coscienza e di non cedere la sovranità a partiti nazionalisti. Al Pp un passo indietro per evitare che Sanchez dovesse chiedere la fiducia a questi movimenti. Puigdemont vuole tornare per essere rieletto e battere qui i suoi rivali».