“La mia domanda è: da quando tutto questo è diventato ok?”, ha ripetuto due volte un Barack Obama visibilmente turbato qualche giorno fa in un comizio, riferendosi a Donald Trump. “Non sto cercando l’applauso”, ammonisce l’ex presidente, parlando a braccio. Ma come è possibile spiegare l’assuefazione da parte dei repubblicani a comportamenti che hanno normalizzato la distorsione della realtà, la riduzione sistematica di materie di vitale interesse pubblico in beghe individuali, per poi passare alla demonizzazione dell’altro e all’odio personale?
L’appiattimento del mondo
Alla fine di questa campagna elettorale che potrebbe segnare le sorti dell’America e con essa del resto del mondo, è un dilemma terribilmente attuale. L’esperienza italiana degli ultimi trent’anni ci dice che non riguarda ovviamente solo l’America, così come non riguarda solo una parte politica. Uno come Berlusconi ne era un precursore, Trump un esempio estremo, ma nessuno dei due o dei loro emuli ne sono la causa ultima.
La domanda di Obama riguarda la cultura politica di tutto l’Occidente. Il mio collega all’Istituto Universitario Europeo di Firenze Olivier Roy ne ha scritto in un saggio di grande impatto appena pubblicato: “L’appiattimento del mondo: La crisi della cultura e il dominio della norma” (Feltrinelli). Il problema, scrive Roy, è frutto di un paradosso più profondo: dai diritti civili ai conflitti, dall’ultradestra populista all’ambientalismo di Ultima Generazione, il discorso pubblico è diventato pressoché ovunque il terreno di una “guerra culturale”. Ma di culturale questa guerra non ha nulla, sia nella forma che nella sostanza. Si inquadra qualsiasi materia in norme non-negoziabili che non lasciano spazio ad istanze propriamente valoriali, che siano esse motivate dalla conoscenza o da differenti sensibilità locali, politiche, o socio-economiche.
L’individualismo edonista
Le ragioni? Tutte in realtà arcinote: si è passati dalle ideologie del secolo scorso come fattori di aggregazione collettiva, all’individualismo edonista, a sottoculture autonome, alla deterritorializzazione, al web. Tutto questo ha appiattito il mondo non solo per quel che riguarda il libero movimento di beni, servizi, persone e capitali ma anche nei valori condivisi. Il risultato è questa riduzione di qualsiasi tema a terreno di scontro sradicato da un contesto e tessuto sociale.
La polarizzazione americana può esserne il teatro più assurdo. Ma anche da noi questa involuzione, da aliena e alienante alla democrazia, ha reso normale e accettabile ciò che non lo era.
Chiunque può rinfrescarsi la memoria in quell’archivio a cielo aperto che è poi uno dei lati positivi di internet. Si provi a cercare su YouTube Bettino Craxi che in un fumoso studio televisivo discetta con Renato Guttuso, Giorgio Strehler e Lucio Dalla sulle ragioni della partecipazione del leader socialista al congresso del PCI. Si trovi su RaiPlay Giorgio Napolitano che a metà degli anni ‘80 faceva ammenda in un talk show sulla posizione del suo partito riguardo alla repressione sovietica di Budapest del ‘56 e alla primavera di Praga. Interessanti documenti storici, ma anche esempi di come il discorso pubblico era fino a non troppi anni fa.
In questi casi, il rischio dell’amarcord qualunquista è sempre dietro l’angolo. Ma il punto semplice e disarmante è che se in democrazia votano solo i maggiorenni, ne dovrebbe conseguire che gli elettori vengano trattati da persone adulte. Questo “dominio della norma” invece tratta i cittadini da adolescenti affetti da deficit dell’attenzione. Gli americani con un termine perfetto lo chiamano “dog whistle”, il fischietto a ultrasuoni che sentono solo i cani. Basta uno slogan, una frase ad effetto per aizzare platee di followers adoranti, leoni da tastiera o bot orientali e annullare qualsiasi velleità di un ragionamento articolato.
Per poi lasciare ad uno come Trump, suprema ironia, ammonire severo nel fatidico dibattito con Joe Biden del giugno scorso, di “non comportarci come bambini”.