Domani e dopodomani i cittadini russi vanno a votare per Putin che a quanto pare non è riuscito a trovare nell’intera Federazione un avversario politico, sicché il risultato è scontato ma non del tutto. Il modo in cui i russi andranno ai seggi a Mosca e San Pietroburgo, le percentuali, le schede bianche, quelle nulle, quelle contenenti messaggi: c’è grande agitazione al Cremlino perché sia le percentuali dei votanti che gli eventuali messaggi che lasceranno molti elettori faranno capire a che punto è il consenso e il dissenso. E come festeggia Vladimir Vladimirovic la vigilia dell’ovvio (e tuttavia ambito) successo elettorale: lo ha fatto alla sua maniera, una maniera che ormai sta diventando un’abitudine. E cioè promettendo una guerra nucleare a chiunque lo faccia innervosire. Stavolta il raccapricciante avvertimento è stato diretto alla Finlandia con cui la Russia condivide un confine gigantesco e lungo il quale ha già fatto disporre rampe lancia razzi su cui possono essere innestate delle bombe atomiche cosiddette tattiche, ovvero della potenza di quelle che gli americani lanciarono su Hiroshima nel 1945. La forza militare russa non prevede che ordigni di questa potenza richiedono addirittura l’intervento con codice segreto del capo dello Stato e del governo.

Le bombe tattiche nucleari: come funzionano e chi può azionarle

La nuova dottrina militare stabilisce che siano i comandanti generali locali a valutare l’eventuale uso di bombe tattiche secondo le necessità locali di battaglia. Ma questa minaccia è contro la Finlandia che ha una storia che i finlandesi ben ricordano: risale alla cosiddetta guerra d’inverno che cominciò subito dopo la spartizione della Polonia con la Germania nazista nel dicembre nello stesso 1939. Stalin sperava di impressionare gli scomodi alleati tedeschi con un’operazione militare di grande stile e impegno ma che invece fallì. Helsinki fu bombardata improvvisamente e in maniera feroce prendendo come bersaglio le case di appartamenti e le famiglie civili. Ma l’esercito sciatore dei finlandesi dette filo da torcere all’armata rossa respingendo gli attacchi dei carri armati e costringendo il dittatore sovietico a esporsi al disprezzo di quello nazista. Fu così che Stalin fece arrivare sul fronte finlandese – insieme a un’enorme quantità di rinforzi di aerei, di carri e di uomini – anche un gruppo di commissari del partito con l’incarico di giustiziare con un colpo alla nuca tutti gli ufficiali superiori che sul terreno avevano perso contro i soldati finnici. Alla fine, l’Unione Sovietica e la Finlandia si accordarono per una soluzione che consentiva il passaggio delle truppe sovietiche. Ma l’umiliazione subita dall’armata rossa contro i finlandesi, così come in precedenza contro i polacchi, è stata una causa di odio perenne e a quanto sembra Putin non intende lesinare né sulle parole né sui chilotoni, unità di misura distruttiva delle armi nucleari.

Putin unico candidato e le squadracce russe

L’ultimo possibile competitore che si presentò a piede libero davanti alla Commissione di controllo elettorale (che decide se sei accettabile come candidato) fu il pacifista Boris Nadezhsin, sbrigativamente bocciato a febbraio. L’unico vero oppositore con i tratti del leader con un seguito mondiale, Alexey Navalny, è morto in un gulag Artico detto “Lupo Rosso”, nell’ora d’aria – si dice – per costipazione da pugni sul miocardio. Il più attivo collaboratore di Alexey, Leonid Volkov, un giovanottone di barba e capello rosso, è stato aggredito a martellate a Vilnius (Lituania, dove vive in esilio) da una squadraccia russa che si muove nella Repubblica baltica del tutto impunita. Volkov è stato aggredito nella piccola sede della Fondazione Anti-Corruzione, Fbk, che in Russia è stata dichiarata “estremista” ed estremisti passibili di capricciose pene, dalla multa al gulag. E sono in movimento squadracce di russi putiniane in tutte le Repubbliche dell’ex Unione Sovietica e anche di quelle che non facevano parte dell’Urss. La possibilità di mobilitare una minoranza russa che chieda l’intervento dell’armata russa fu creata con lungimiranza personalmente da Josep Stalin, un despota molto accorto nel decidere, sulla via indicata da Lenin di negare la libertà ai paesi non russi che componevano l’impero zarista e – con astuzia raffinata dalla consuetudine di spostare o eliminare interi popoli – fece emigrare in ogni Repubblica non russofona un nutrito nucleo di abitanti di madrelingua russa, pronti a ribellarsi al governo locale dichiarandosi vittime di pulizie etniche.

Lo fece in Ucraina, lo fece in Georgia, lo fece in Kazakistan e in tutti gli Stati musulmani e nelle tre repubbliche baltiche allo scopo di usare queste minoranze esattamente come è stato fatto nel 2008 quando era il pretesto a Putin per invadere la Georgia e mantenere guarnigioni in Ossezia e in Abkhazia per poi proseguire nel 2014 con la cattura della penisola di Crimea invasa dalle prime truppe mercenarie di Evgenij Prigozhin nel Donbass, benevolmente chiamate “l’esercito degli strani omini verdi” poiché russi che non portavano mostrine sulle loro uniformi. In compenso offrivano e anzi imponevano a tutti un passaporto russo e un radioso futuro nella madrepatria dopo la riunificazione, ovvero l’annessione.
Quelle tecniche e quegli scenari ormai fanno parte dell’iconografia politica e militare delle forze armate russe e dei suoi aggregati mercenari. La novità degli ultimi quindici anni è che gli Stati Uniti si sono assottigliati fin quasi a scomparire come potenza unica mondiale, cui è impossibile opporsi. In questa novità sta lo scontro diretto e violento fra Donald Trump e Joe Biden perché se il primo vuole il ritiro totale di ogni uniforme americana sul pianeta, il presidente Joe Biden rivendica il diritto americano di portare la pace o la guerra secondo le tradizioni e le suggestioni dello spirito americano. Intanto allo stato attuale l’America è disarmata perché non può e non vuole sorreggere fino alle estreme conseguenze alleati non facili come l’Ucraina e Israele. Ed è un fatto che nel Medio Oriente agiscano medie potenze come l’Iran, la Russia e la Cina, che però raramente intendono realmente andare oltre il messaggio minaccioso. Ed ecco la conseguenza: da lunedì scorso le tre medie potenze appena citate (Cina, Russia e Iran) hanno lanciato una strana manovra militare marittima congiunta nell’Oceano Indiano a partire dal Golfo di Oman allo scopo – è stato comunicato – di “assicurare insieme la sicurezza marittima regionale”.

Bizzarra spiegazione, perché l’unico elemento di disordine prossimo all’Oceano Indiano è nel Mar Rosso, dove le navi mercantili sono bersagliate dai ribelli Houthi che lanciano missili dallo Yemen per colpire e bloccare il traffico commerciale sul Mar Rosso per generare una grave crisi dei prezzi in Occidente. La nave italiana Duilio, che fa parte della missione di protezione mercantile, ha già abbattuto due droni di un alleato dell’Iran. Delle tre potenze che partecipano all’esercitazione soltanto una, la Cina, ha una base navale a Djibouti e potrebbe quindi avere un interesse specifico. È evidente che una scorribanda navale di soli cinque giorni in acque di scarso interesse non ha a che vedere con la difesa dell’ordine regionale ma piuttosto, come scriveva ieri Sylvie Kauffmann su Le Monde, si tratta piuttosto delle potenze che hanno interesse a mantenere il “disordine” in cui si garantiscono reciprocamente un terreno di gioco e di impunità sul quale manovrano tutti i cosiddetti “proxy” dell’Iran come Hezbollah, gli Houthi e la stessa Hamas che agisce in nome e per conto di Teheran.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.