Sei coltellate. Il coltello che passa dalla schiena al braccio per poi tornare sulla schiena. A governarlo è un ragazzino di sedici anni. È arrabbiato con la sua professoressa d’italiano e storia che nel corso dell’anno gli ha messo cinque note disciplinari e aveva annunciato di volerlo interrogare. Ha anche una pistola finta, ma nell’istante della follia tutti credevano fosse vera, che appoggia sul banco insieme con i libri e le penne. Siamo nella scuola superiore di Abbiategrasso, Milano.

La professoressa, per fortuna, non è in pericolo di vita. Nel frattempo, l’alunno è stato ricoverato nel reparto di neuropsichiatria dell’ospedale San Paolo di Milano. Per le sei coltellate alla sua insegnante è accusato di tentato omicidio aggravato. E le coltellate le abbiamo sentite tutti. La prima ferisce a morte il senso di responsabilità dei grandi, degli adulti. Perché un ragazzino di sedici anni è lo specchio di noi grandi che senza dubbio abbiamo fallito. La seconda colpisce, o dovrebbe colpire, la miopia della politica che non vede più nella scuola il primo baluardo di legalità e il luogo più importante per l’educazione dei cittadini del domani.

E lo dimostrano bene i dati sulla gestione del Pnrr e i tagli alla scuola che falciano il futuro e mettono in ginocchio l’istruzione. La terza colpisce al cuore la figura dell’insegnante, non più maestro di vita da ascoltare e rispettare, ma nemico da combattere sempre e a prescindere. La quarta ferisce il mondo dei più piccoli, sempre più arrabbiati, chiusi, lontani, sempre più social e meno socievoli. La quinta colpisce una scuola che è in affanno, che deve combattere con la carenza di personale, di fondi, di spazi e una classe dirigente che guarda dall’altra parte. L’ultima coltellata deve farci sobbalzare dalla sedia e deve farci andare a cercare le motivazioni. La tentazione di giudicare il ragazzino ingestibile che ha afferrato un coltello e ha colpito per sei volte la sua insegnate, è forte, ma va arginata. Bisogna tentare di cercare le motivazioni dietro un gesto disperato.

E rintracciamole prima che nelle cose aleatorie, quelle che pure esistono ma che non possiamo toccare con mano, nei numeri. E i numeri non mentono. Il Pnrr, la grande occasione per l’Italia di rinnovare gli ambiti più importanti della società e di accorciare il divario tra Nord e Sud, ha stabilito che per l’edilizia scolastica vengano spesi 13 miliardi. A che punto siamo? La fotografia è stata scattata dal Sole 24 ore. Stando all’ultimo aggiornamento della piattaforma Regis di 6.910 progetti registrati per la scuola, solo 19 risultano chiusi. Si sconta decenni di politica confusa, lenta e che lavora in emergenza: non limitarsi più a interventi expose per risolvere le criticità, ma programmare ex ante snellendo le procedure, sarebbe un buon punto di partenza e invece si tende a piangere sul latte versato.

I progetti ci sono, i fondi pure, ma i cantieri sono pochissimi e per lo più fermi. I ritardi si accumulano e la scuola cede. E sempre sulle pagine del Sole 24 ore, Giuseppe D’Aprile, segretario Uil Scuola ha alzato la voce per gridare tutto il dissenso verso le ultime proposte del Governo. Tagli di istituti, di presidi, di personale: i sindacati della scuola e l’opposizione contestano quanto previsto dalla legge di Bilancio: «In otto anni verranno eliminate oltre 500 scuole: una perdita netta in termini di figure professionali, amministrative e tecniche. Scegliere di ridurre il numero di scuole piuttosto che ridurre il numero di alunni per classe è una logica non condivisibile e dimostra la poca lungimiranza del ministero», tuona Giuseppe D’Aprile, segretario Uil Scuola.

Meno scuole e meno qualità dell’istruzione, vuol dire ragazzi più soli e meno colti. Vuol dire una società allo sbando. E bene si sono visti i danni della chiusura delle scuole, durante la Pandemia. In quei mesi il virus imperversava, ma quando si doveva decidere quale attività riaprire, si alzavano le saracinesche di bar, negozi e ristoranti ma i cancelli delle scuole rimanevano, incredibilmente, chiusi. Segno che la scuola non era e non è vista come priorità.

L’educazione poteva aspettare. Come purtroppo prevedibile, la pandemia ha confermato una tendenza già in atto da alcuni anni. Configurandosi, anche in questo ambito, come un acceleratore di processi in corso, piuttosto che come vero e proprio spartiacque. Bassa istruzione e povertà si influenzano a vicenda: chi nasce in un nucleo più povero avrà a disposizione meno opportunità, anche educative. E a sua volta, da adulto, avrà più difficoltà ad ottenere lavori stabili e ben retribuiti e sarà più a rischio di esclusione sociale.

Non solo, i ragazzi hanno subito danni enormi dalla chiusura delle scuole. Si sono isolati, si sono arrabbiati, non hanno letto, non hanno parlato, non si sono confrontati, non hanno visto i loro insegnanti. E noi, questi ragazzi li stiamo perdendo. Nel nostro Paese, il 13% dei giovani tra 18 e 24 anni ha lasciato la scuola prima del tempo. Ma si tratta solo della forma esplicita di abbandono. La quota sale di quasi 10 punti se si somma la dispersione implicita di chi finisce la scuola senza le competenze di base minime.

Perché se non pensiamo alla scuola, a renderla luogo sicuro, del merito, di educazione, di socialità, i ragazzi li perdiamo. Se non supportiamo gli insegnanti, se non vigiliamo sui più piccoli, se i genitori non smettono di giustificare sempre e comunque i figli, se non investiamo nella scuola, non dobbiamo sorprenderci della tragedia sfiorata ad Abbiategrasso. Tutti a dire della rabbia del fiume e nessuno della violenza degli argini che lo costringono. Ecco, guardiamo gli argini.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.