Siamo abituati a considerare le istituzioni come qualcosa di fermo, immobile, chiuso. Un appiglio che dà sostanza e ordine al caos della vita. E questo anche nel caso in cui si fa propria una visione storicistica delle stesse. Questa concezione che Roberto Esposito definisce nel suo ultimo libro “verticistica e conservativa” è sopravvissuta all’età medievale, ove le istituzioni erano parte di un ordine naturale imposto dalla volontà divina, e, attraverso il paradigma di ordine imposto da Hobbes, si è secolarizzata ed è arrivata sino a noi. Lo Stato, nella sua immagine di Leviatano o Dio terreno, è l’istituzione così concepita per eccellenza. La stessa contrapposizione fra movimenti e istituzioni, resa celebre a livello popolare da noi da Francesco Alberoni, poggia su questa idea.

Il tentativo che il filosofo napoletano compie magistralmente (anche se non sempre condivisibilmente) nel suo ultimo libro, che esce nella collana delle “Parole controtempo” de Il Mulino (Istituzione, pp. 163, 12 euro), è quello di destrutturare e superare questa tradizione di pensiero, recuperando in qualche modo la prassi giuridica romana e in linea con certe tendenze che si intravedono nell’età della globalizzazione. Di cui, celiando, si potrebbe dire che il filosofo napoletano con questo agile libro, che ha sempre presente lo sfondo della pandemia, dimostra di essere uno dei superstiti cantori. Per quanto, va necessariamente aggiunto, con una finezza di argomenti, e in una dimensione speculativa, che i cantori medi del globalismo si sognano.

Il concetto che smonta e rimonta il pensiero classico sulle istituzioni è per Esposito quello di “pensiero istituente”, che si delinea a partire dalle risorse di senso soprattutto di tre tradizioni diverse: “certa sociologia francese, l’antropologia filosofica tedesca e l’istituzionalismo giuridico italiano”. I nomi di Marcel Mauss (ma anche di Maurice Merleau Ponty e Claude Leffort), di Arnold Gehlen e di Santi Romano (ma anche di Widar Cesarini Sforza) si rincorrono nel libro. E il tutto in vista di una concezione del diritto che trasborda, per così dire, dai suoi limiti disciplinari, rigorosamente delimitati nell’ordinamento giuridico statuale, per investire tutte quelle forme di vita “in comune” che fanno e disfanno, istituiscono e destituiscono, continuamente norme e regole che diventano spesso più cogenti delle stesse leggi statali.

Regole che, formandosi appunto “in comune”, tendono ad una certa universalità, ma che, facendosi però nel processo stessa della vita “comunitaria”, non sono fissabili in leggi più o meno compiute e definitive. Pensiero e ordinamento giuridico in atto, “pensiero istituente” appunto. In quest’ottica, lo Stato non scompare ma diventa un’istituzione fra le altre: limitato, per così dire, da quelle che lo sovrastano (ad esempio le organizzazioni internazionali o le Ong) e da quelle che teoricamente sarebbero sotto la sua giurisdizione ma che tendono sempre più ad autoregolarsi (pur forse in un’ottica di rispetto formale della legge statale). Oltre lo Stato, come è significativamente intitolato un capitolo del libro di Esposito, è una tendenza che connota un processo di inclusione (e democrazia) e al contempo di rivitalizzazioni trasversali della politica con l’emergere di «nuovi organismi capaci di subentrare alle esauste famiglie politiche novecentesche, liberali, popolari, socialiste, che ancora siedono nel Parlamento europeo».

La teorizzata compenetrazione di vita e forme supera, o integra in qualche modo per Esposito, lo stesso dispositivo biopolitico, che, ad esempio in Michel Foucault, era ancora debitore del paradigma della sovranità che portava a vedere il potere dell’istituzione come soffocatore della vita e della libertà. Tale compenetrazione, che si realizza attraverso quello che Esposito chiama la “produttività del negativo”, è solo un sofistico esercizio speculativo, o anche una tendenza insita nei fatti odierni? Ho l’impressione che ognuno possa, allo stato dei fatti, interpretare la cosa in un modo o nell’altro, vedendo la parte piena o quella vuota (interpretate dal suo punto di vista) del bicchiere che è la nostra attualità.