Cultura
Le madri del sud

A Settentrione si sta avanti, fra bagliori e rombi Milano apre la pancia e Torino allarga le mani a pensiline fin sulla porta degli autobus, Bologna dilatata i suoi archi e sparpaglia la segatura sotto i portici: il Po ha servito al cielo l’acqua delle Alpi, che ora porta il conto. A Meridione Igliu addormenta Fengari, Apollo mette in fuga Ecate, le ombre guadagnano i rifugi sui monti e il giorno debutta con un’estate perenne che si spalanca su un mondo muto. Il Nord è un formicaio che si prepara da giugno all’inverno.
Il Sud è un concerto d’insonni: non ha senso ammassare ristori, c’è un vuoto d’uomini a godere del mare tiepido, del profumo immortale del gelsomino. Da Bari a Enna la vita presunta si addensa al capolinea di corriere antiche, i ragazzi sono andati da tempo e ora è il tempo delle madri: Madonne saltano dalle nicchie dell’Addolorata, si stringono la testa con fazzoletti colorati, mosci sul vuoto di capelli, guardano camicette flosce su un lato scolmato del petto: vanno per ospedali Nordici a ritrovare speranza e vogliono crederci nella salute per Legge, pensano ai figli sparsi e si dicono che davvero questo Paese sia fondato sul lavoro, con l’inganno che esso starà sempre troppo lontano dalle loro case. Se cercate una pietà persa, montate su quei pullman lugubri che portano a Siano, a Carinola, a Tolmezzo, a Novara, nel freddo eterno de L’Aquila, sedetevi vicino alle madri in viaggio per carceri, accanto ai sacchi del cambio d’abito stagionale, preparati con cura per figli che stanno al buio, e sono uno sputo in faccia alla luce Costituzionale. Ha qualcosa di eroico e di comico il Meridione estivo nell’autunno che dovrebbe essere inoltrato: si oppone al freddo ma non ha a chi offrirlo il suo caldo in più. Il Sud è un luogo che fa tenerezza se rapportato al suo passato, che commuove messo in faccia al presente. Un paese che fa rabbia per la sua pazienza che somiglia alla viltà. Che resiste solo per una Costituzione scritta nel ventre infaticabile delle proprie madri. Quelle donne che hanno tenuto casa: con i mariti lontani, i figli scappati e i figli perduti, che dopo ogni nero hanno riacceso i colori, che memori di guerre antiche mantengono nelle imprecazioni, “Turchi ah cani”. Loro tengono il punto di una coperta che tutti provano a sfilacciare, e resistono a una deriva morale che altrimenti sarebbe definitiva.
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