Le misure alternative possono salvare la giustizia dal crac

Il mare in burrasca della giustizia italiana continua a fare danni. Oltre a stravolgere la vita di cittadini ritenuti colpevoli, dopo molti anni assolti, a condannare altri a distanza di un lasso di tempo enorme dal fatto-reato, a non riuscire a soddisfare le richieste delle persone offese, a non garantire una detenzione rispettosa dei principi costituzionali, disperde anche enormi risorse finanziarie. Alcuni dei principi fondanti del nostro ordinamento, come la presunzione d’innocenza e la ragionevole durata del processo sono affondati negli abissi di queste acque mai calme e a volte inquinate.
Il Riformista ha evidenziato l’esborso legato alle riparazioni per ingiusta detenzione a Napoli e dintorni, il che non riguarda solo “coloro che cadono a mare” o “vi vengono gettati”, ma coinvolge tutta la comunità in quanto le risorse finanziarie che garantiscono il (mal)funzionamento dell’amministrazione giudiziaria provengono dalle nostre tasche. Lo tsunami-giustizia, dunque, colpisce l’intero Paese e lo danneggia anche perché non attira investimenti dall’estero. Alla lentezza cronica dei processi – destinati a diventare “senza fine” se non si riforma la prescrizione – e al loro costo elevato in termini di risorse umane e finanziarie, si aggiungono i risarcimenti che lo Stato è condannato a pagare agli imputati per la lunghezza dei processi e le ingiuste detenzioni.
A tali spese si sommano quelle per mantenere un sistema penitenziario non efficiente e dai costi elevati. Se la giustizia fosse un’azienda privata sarebbe fallita da tempo. Questo è il parametro che manca del tutto nelle organizzazioni statali. Non si è abituati a ragionare in termini di costi-benefici e quello che vale per i privati non è detto venga applicato anche al pubblico. Un esempio attualissimo sono i numerosi procedimenti fissati – nonostante l’emergenza sanitaria – alla stessa ora in quasi tutte le sezioni del Palazzo di Giustizia di Napoli. Manca una visione concreta delle situazioni e a pagarne le conseguenze sono avvocati e parti private, costrette ad attendere fuori dalle aule. Tutti concordano sul fatto che il sistema non funzioni, ma non si adottano provvedimenti adeguati.  Un imprenditore che vede il proprio prodotto non venire alla luce nei tempi stabiliti e/o che lo vede difettato, corre immediatamente ai ripari. Concentra tutte le risorse umane e finanziarie per migliorare la produzione, responsabilizzando dirigenza e maestranze. Non avviene così a livello statale.
Il personale è costantemente sottodimensionato e si consente ad alcuni di essere posti fuori ruolo per il distacco presso Ministeri o altrove. Inoltre alla funzione ricoperta può aggiungersi un’altra, come far parte delle Commissioni tributarie, con evidenti sottrazioni di tempo all’attività principale. Non si pensa di rimediare a queste paradossali situazioni, ma si progettano riforme per diminuire le garanzie degli indagati e degli imputati, già caduti nelle onde tempestose e consapevoli di doverci restare per molto tempo. Occorre, dunque, un cambio di passo. Una vera e propria inversione di rotta che possa calmare le acque e restituire un minimo di fiducia in una giustizia uguale per tutti, ma efficiente. In diritto non esiste il principio del mal comune mezzo gaudio. A curare questi mali vi è oggi un ministro della Giustizia, di grande competenza che ha sempre indicato la nostra Costituzione come la bussola da seguire per ogni decisione.

Nelle linee programmatiche, appena sottoscritte dalla guardasigilli, sono indicati principi che fanno sperare in un futuro migliore per la giustizia italiana. In tema di esecuzione penale è stato precisato – contrariamente a quanto sostenuto dal precedente ministro – che la certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta dev’essere invocato quale extrema ratio e che occorre valorizzare piuttosto le alternative alla reclusione, già quali pene principali. In questo pensiero che ci riporta al vero diritto e non a quello del “bar sport”, c’è anche la concretezza e ragionevolezza che prima è mancata a chi ha tentato, senza riuscirci, di fermare le onde di un mare continuamente in tempesta. Al giudice di merito va data la possibilità di infliggere anche misure alternative al carcere, condannando l’imputato a un percorso punitivo-rieducativo che potrà successivamente essere rimodulato dal magistrato di sorveglianza.

Tale soluzione potrebbe anche riempire di contenuti “rieducativi” la sospensione condizionale della pena, istituto privo di elementi sanzionatori e punitivi. Occorrerà far comprendere all’opinione pubblica le ragioni del necessario cambiamento, per attuare quella rivoluzione culturale che nel 1975 non accompagnò l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario e, ai giorni nostri, il suo progetto di riforma. E precisare che le misura alternative sono comunque anch’esse delle pene che comportano una restrizione della libertà e, in larga percentuale, evitano il pericolo di recidiva a un costo per la collettività di gran lunga più basso. Un’equazione costi-benefici di facile comprensione.