L’orizzonte che abbiamo davanti è quello di un cambiamento d’epoca, come ama dire papa Francesco, al cui interno assistiamo a una rivoluzione tecnica permanente. Non mancano studi che continuano ad avvertirci, preoccupati per il futuro della società. Non ci troviamo di fronte a un nuovo capitalismo? Il “capitalismo della sorveglianza”? I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno. Come si può intuire è urgente comprendere quanto sta avvenendo già sotto i nostri occhi: dobbiamo aprirli meglio, non rassegnarci all’inevitabile, al contrario intervenire perché la stella polare resti sempre la centralità della persona e della intera famiglia umana. Non dobbiamo dimenticare che – senza un’adeguata attenzione – le disuguaglianze che si produrrebbero sarebbero ben più gravi e drammatiche di quelle prodotte da una globalizzazione selvaggia del mercato.

La tecnologia oggi
Quali sono le caratteristiche della tecnologia, oggi? Nel suo cammino l’umanità ha visto molti profondi cambiamenti che hanno modificato sia le sue conoscenze sull’universo, sia la propria posizione nel mondo. L’uomo si è trovato sospinto sempre più verso regioni periferiche: con Copernico il nostro pianeta ha perso la sua posizione centrale nel sistema solare; con Darwin la specie umana è stata inscritta nella concatenazione evolutiva delle altre specie animali; con Freud l’Io ha scoperto che quel controllo totale che credeva di avere sulle proprie facoltà era illusorio, si trova in realtà sottomesso a spinte inconsce che influiscono su decisioni e comportamenti. Ognuno di questi passaggi ha comportato non solo trasformazioni sul modo di comprendere la realtà fisica, biologica o psichica, ma anche una nuova comprensione di se stesso o, come dicono i filosofi, una nuova auto-comprensione. Anche la storia della tecnica ha conosciuto vere e proprie rivoluzioni. Pensiamo al campo dell’energia: con la macchina a vapore e poi con l’elettricità si sono prodotti profondi cambiamenti nel modo di vivere e di lavorare dell’intera umanità.

Ognuna di queste rivoluzioni ci ha sollecitato a ripensare il concetto stesso di unicità dell’essere umano con nuove categorie. Le tecnologie dell’informazione (ICT), inoltre, non sono solo strumenti; esse trasformano il nostro modo stesso di vivere. Se poi si lascia spazio alle cosiddette “tecnologie emergenti e convergenti” (nanotecnologie, biotecnologie, scienze cognitive…), si comprende ancor più la forza della tecnica nella trasformazione del vissuto umano.  La comprensione di noi stessi che va affermandosi pone l’accento sulla centralità dell’informazione: la persona umana è un “organismo informazionale” (inforg), reciprocamente connesso con altri organismi simili ed è parte di un ambiente informazionale (l’infosfera), che condividiamo con altri agenti, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo. Nella realtà “iperconnessa” nella quale siamo immersi non ha più neanche senso porre la domanda se si è online o offline, perché attraverso la molteplicità di dispositivi con cui interagiamo e che interagiscono tra loro, spesso a nostra insaputa, sarebbe più corretto dire che siamo onlife: un neologismo che alcuni pensatori usano per dire l’inestricabile intreccio tra vita umana e universo digitale.

Quale etica?
All’interno di questo scenario, quale etica dobbiamo sviluppare per avere un impatto reale sulla tecnologia? È una domanda che richiede anzitutto una chiarezza di linguaggio. A partire dalla cosiddetta “Intelligenza artificiale”. Dobbiamo stare attenti alla terminologia. Papa Francesco nel discorso tenuto all’ultima Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita sulla roboetica (2019) diceva a tale proposito: «La denominazione “intelligenza artificiale”, pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante. I termini occultano il fatto che – a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) –, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi. È del resto già reale il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata: a cosiddette “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane. Dobbiamo comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale. I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana. Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine».

In effetti questi dispositivi computazionali sono privi di corpo; sono fondamentalmente delle macchine calcolatrici che si limitano a elaborare flussi informativi astratti. E anche nel caso in cui siano munite di sensori, lavorano riducendo certi aspetti del reale a codici binari, escludendo un’infinità di dimensioni che invece la nostra sensibilità coglie e che sfuggono ai principi di una modellizzazione matematica. Quindi questo linguaggio amputa e distorce ciò che è presupposto al processo dell’intelligenza, il quale è inseparabile dalla sua tensione all’apprendimento multisensoriale e non sistematizzabile dell’ambiente esterno: «per dirla semplicemente: cervello e corpo sono nella stessa barca e insieme rendono possibile la mente» (A. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Milano 2018, p.274).