Ormai è una slavina. L’ultimo scandalo, quello dei verbali secretati di Amara, restituisce l’immagine di un sistema giustizia, che è ormai divenuto più un centro di potere, nel quale si sviluppano le dinamiche e i conflitti caratteristici di un qualsiasi centro di potere, piuttosto che il tempio nel quale si decidono, con terzietà lontana dai clamori e dai bassi interessi, la vita delle persone. Il rischio, tuttavia, è di non vedere una distinzione che, viceversa, è fondamentale. Se si guarda esclusivamente a coloro che svolgono la funzione giudicante occorre rilevare che, se pure sono anch’essi colpiti da scandali, si tratta di scandali connessi alla debolezza umana della singola persona, che non implicano alcuna valutazione della categoria dei Giudici nel loro complesso. Si può trovare lo scansafatiche, quello con un pregiudizio politico inammissibile e anche il corrotto. Ma si tratta di presenze marginali e che non mettono in discussione il ruolo dei Giudici nel loro complesso.

Diverso discorso va fatto per le Procure della Repubblica. In questo caso si aggiunge la netta impressione di trovarsi di fronte a vere e proprie strutture organizzate di potere, che giocano la propria partita tra di loro ed in relazione alle altre strutture di potere esistenti nel paese. Si spiega così anche il rapporto, troppo spesso malato, tra Procure della Repubblica e media. È pur vero che vi è un collante unitario, che mette insieme magistrati giudicanti e magistrati dell’accusa: Associazione Nazionale Magistrati e Consiglio Superiore della Magistratura. Il magistrato giudicante, tuttavia, svolge il suo ruolo in sostanziale solitudine e l’appartenenza all’Associazione e il rapporto con il Consiglio Superiore non ne determinano certo l’inserimento, nel momento del giudizio, in una struttura organizzata di potere. A questo si deve aggiungere che non può scegliere le questioni da decidere, in quanto sono quelle, e solo quelle, che gli vengono sottoposte da altri.

Il Pubblico Ministero, viceversa, non solo è inserito in una struttura gerarchica, quali sono le Procure della Repubblica, ma è anche al vertice della polizia giudiziaria. Le Procure, perciò, non solo costituiscono esse stesse un apparato organizzato, ma sono anche al vertice di quell’insieme di uomini e di mezzi che è costituito dagli organi di polizia giudiziaria nel loro insieme. Sono, perciò, vere e proprie strutture di potere, caratterizzate dal fatto che gli esponenti di punta, godendo delle guarentigie dei magistrati, sono sostanzialmente irresponsabili. È significativo, del resto, il fatto che sia comune l’opinione secondo cui, nel paniere dei poteri, il ruolo di Procuratore della Repubblica di Roma o di Milano sopravanzi quello di un Ministro. Viceversa, il Presidente del Tribunale delle stesse città neppure entra in classifica. Non a caso il momento clou della vicenda Palamara è stato quello relativo alla nomina del Procuratore della Repubblica di Roma.

Bisogna, quindi, innanzitutto chiedersi se per combattere le devianze venute da ultimo alla luce sia ragionevole disarticolare le strutture di potere della pubblica accusa. La risposta non può che essere negativa. Basta considerare, al riguardo, che la figura del Pubblico Ministero è chiamata a fronteggiare tutta la devianza sociale che ha una rilevanza penale e che, in una società complessa e al tempo stesso fondata sul rispetto dei diritti fondamentali, tale compito richiede, molto spesso, indagini complesse e l’impiego di notevoli energie investigative. Senza dimenticare, poi, che quando l’indagine riguarda la criminalità organizzata ci si trova di fronte a fortissime strutture di potere che impongono, da parte della pubblica accusa, l’impiego di un impegno investigativo assolutamente straordinario.
La soluzione, allora, va ricercata su di un piano diverso.

Uno degli aspetti più significatici dell’attuale sistema di potere delle Procure della Repubblica è costituito dalla estrema discrezionalità che ne può caratterizzare l’azione. Essa si sviluppa sotto due profili. Da un lato, la enorme massa di vicende di rilevanza penale portata all’attenzione delle Procure della Repubblica fa sì che non tutte possono essere materialmente prese in considerazione. Con la conseguenza che sono i magistrati della Procura a decidere, con assoluta discrezionalità, quali mandare avanti e quali no. Dall’altro, un sistema legislativo spesso confuso, se non addirittura contraddittorio, consente alla Procura della Repubblica di muoversi senza limiti ben definiti.

La situazione descritta è, poi, aggravata dalla circostanza che giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine, aderiscono alle stesse correnti, condividendone il tessuto ideologico che favorisce anche la solidarietà nelle ambizioni di carriera. La conseguenza è una troppo frequente acquiescenza dei giudici alle intemperanze dei pubblici ministeri. Esemplare, in questo senso, è quanto accaduto in tema di concorso esterno in associazione mafiosa. La pubblica accusa ha proposto, e i giudici hanno accettato, l’introduzione di un reato a condotta libera, con evento così indefinito da essere libero e in cui il dolo è implicito nella condotta. Tutto e il contrario di tutto può, dunque, integrare tale reato. Vengono i brividi solo a considerare l’enorme e incontrollato potere di vita e di morte, che può essere esercitato sui cittadini.

Il rimedio, allora, non può che essere quello di una riduzione al minimo dei margini di discrezionalità, oggi troppo ampi, delle Procure della Repubblica. Il che deve, e può avvenire, su più direttrici. Innanzitutto, la legislazione penale, sia sostanziale e sia processuale, deve scandire nitidamente cosa è vietato e quali sono i poteri di indagine. In secondo luogo, non può essere affidata alle Procure della Repubblica la scelta dei procedimenti da coltivare. Trattasi di un tema di politica generale che non può che essere affidato, attraverso la indicazione di criteri generali, al Parlamento, unica diretta espressione della volontà popolare. Infine, va esclusa la colleganza, oggi esistente, tra Pubblici Ministeri e Giudici. Questi ultimi devono essere messi nella condizione reale di considerare i primi come parti e non come colleghi, uniti dagli stessi ideali e dagli stessi interessi.

E questo risultato si può ottenere solo dividendo le carriere. Neppi Modona, su questo giornale, ha affermato che la separazione delle carriere non risolverebbe il problema, ma anzi potrebbe acuirlo, e ha individuato la soluzione in un processo di educazione alla giurisdizione, che dovrebbe compiere ogni giovane magistrato. La tesi, nobile sul piano ideale, non tiene conto della circostanza che, in ballo, vi è l’esercizio del potere, che è una delle molle più capaci di sovvertire l’equilibrio dell’animo umano, e che l’unico limite al potere delle Procure è costituito dal controllo del Giudice, che proprio per questo deve essere assolutamente rigoroso e libero da qualsiasi possibile condizionamento.
Se le Procure della Repubblica continueranno, contro i principi fondamentali di uno Stato democratico, ad essere centri di potere non solo irresponsabili, ma anche sostanzialmente incontrollati ed incontrollabili, gli scandali che le riguardano sono destinati a moltiplicarsi e, di pari passo, crescerà la già alta sfiducia dei cittadini nella giustizia.