La Francia è ancora sotto choc per la guerriglia successiva alla morte di Nahel. Parigi cerca di trovare una soluzione per arginare e porre fine a una rabbia che ha assunto, in alcuni casi, i caratteri di una vera e propria rivolta. Ma la sfida del governo transalpino non è affatto semplice. In molti, specialmente da destra, invocano una repressione più dura da parte di un apparato di sicurezza che vede in campo già 45mila agenti tra membri della polizia e della gendarmeria.

Tuttavia, a tenere banco è il pericolo che una reazione più decisa da parte delle forze dell’ordine abbia come effetto quello di feriti o vittime tra i giovanissimi manifestanti (o facinorosi) e quindi una conseguente recrudescenza della violenza in una fase di “de-escalation”. «Dobbiamo prenderci un momento di riflessione per cercare di parlare ai quartieri e per essere intransigenti con i teppisti», ha detto il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin.

Ma l’equilibrio, in questi casi, è difficile da trovare. Da un lato, individuare una soluzione del fenomeno rivoltoso nelle periferie francesi appare un dossier davvero inestricabile, che per molto tempo Parigi non ha compreso né cercato di risolvere. Dall’altro lato, per il presidente Emmanuel Macron e per Darmanin, fermare la guerriglia urbana prima che degeneri ulteriormente in tutto il Paese è a questo punto una priorità assoluta, visto che il punto di non ritorno non sembra così lontano. Il ministero dell’Interno ha comunicato che solo nella notte tra il 2 e il 3 luglio sono state arrestate più di 150 persone coinvolte negli scontri.

Tra le forze dell’ordine si sono registrati altri tre feriti, portando il computo a circa 45 in una sola notte e 700 dall’inizio delle proteste. Mentre nelle ultime 48 ore è stata data la notizia dell’apertura di un’inchiesta per tentato omicidio dopo che nella notte tra venerdì e sabato un agente di polizia è stato colpito con un’arma da fuoco, salvandosi soltanto grazie al giubbotto antiproiettile. Nel frattempo, la Francia è scossa anche dalla notizia della morte di un vigile del fuoco di 24 anni, il caporale Dorian Damelincourt, mentre era impegnato a domare un incendio in un parcheggio a Saint-Denis.

Le autorità e il comando dei pompieri di Parigi, in attesa dei risultati dell’indagine sull’origine dell’incendio, hanno evitato di collegare la morte del giovane alle violenze di questi giorni, spesso connotate da roghi appiccati alle auto. Tuttavia, la fotografia di un giovane pompiere caduto mentre compie il proprio dovere colpisce inevitabilmente l’immaginario collettivo mentre suoi coetanei appiccano incendi tra le strade delle città: 352 quelli registrati solo nell’ultima notte di follia.

Lo “tsunami” di rabbia, come è stato definito da alcuni media, sconvolge intanto non solo per la velocità con cui è dilagato in tutto il Paese, ma in particolare per il dato dell’età delle persone fermate. Dopo la morte del diciasettenne Nahel a Nanterre per mano di un poliziotto, i fermi in tutta la Francia sono stati 3.200. Secondo Darmanin, l’età media delle persone arrestate è di 17 anni. Molti di questi addirittura hanno tra i 12 e i 13 anni, e il 60 per cento non ha precedenti né era noto alla pubblica sicurezza. Sono numeri che fanno riflettere e che interrogano l’Eliseo e tutti gli apparati dello Stato impegnati a decifrare un’ondata di violenza durissima, ma allo stesso tempo non del tutto imprevedibile.

I precedenti degli ultimi decenni avevano già portato molti osservatori a lanciare molteplici allarmi per il fatto che le banlieue (e non solo) fossero ormai una polveriera. E tanti accusano i vari governi di non aver saputo arginare un fenomeno di ghettizzazione e di creazione di vere e proprie sacche anti-Stato. E questo, nonostante i ripetuti episodi che confermavano la minaccia. Il primo esempio fu la rivolta del 2005, quando la morte di due ragazzi, Zyed Benna e Bouna Traoré, scatenò una protesta che dalla banlieue parigina si estese in varie regioni. Stessa dinamica per il caso di Theo Luhaka, nel 2017, quando la violenza sul giovane, fermato dalla polizia, fece partire un’onda di rivolte in molte città d’Oltralpe. Guerriglie urbane simili per origine a quella di questi giorni.

Tutte e tre legate dalla morte o da un abuso durante un controllo delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini francesi di origine africana. Le scene di saccheggi e violenza sono inoltre diventate un’inquietante costante francese anche quando non sono una reazione a casi di cronaca. E questo lo si è visto sia nelle manifestazioni politiche – dai gilet gialli alle proteste contro i lockdown fino a quelle contro la riforma delle pensioni – sia in caso di eventi sportivi, spesso connotati da scontri negli stadi o da violenze durante alcune partite delle nazionali di Algeria e Marocco.

Due sembrano essere i fili conduttori di queste violenze, spesso anche molto distanti come causa scatenante: la rabbia che prende di mira la collettività o lo Stato (come la recente aggressione al sindaco di Hay-les-Roses, Vincent Jeanbrun) e la giovanissima età di chi scende in piazza. Molti puntano il dito sui social, come ha fatto lo stesso Macron accusando le piattaforme di fare da cassa di risonanza all’odio, oppure sui genitori. Ma tanti sottolineano come in questa fase sembra venire al pettine soprattutto il nodo di milioni di cittadini mai davvero integrati nel sistema francese pur essendo immigrati di seconda, terza o quarta generazione.

Cosa non ha funzionato nel processo di assimilazione, che è sempre stato un punto di riferimento della cultura francese? Com’è stato possibile il fiorire di aree dove lo Stato è assente, lasciando spazio a criminalità, degrado o a radicalizzazione? Un modello di società che rischia di apparire fallimentare, come dimostrato dalla morte di Nahel e dalle devastazioni, e su cui si interrogano i sociologi ma anche politici, divisi sulle soluzioni da offrire nell’immediato, ma anche su come risolvere a monte le radici di questo male oscuro.