Le utopie del sindaco
Le ricette anticrisi di de Magistris sono solo una fuga dalla cruda realtà

Tra le molte cose che abbiamo capito nel vivo dell’emergenza sanitaria e nel chiuso delle nostre case, c’è questa. Tanto De Luca insiste sulla gravità dei fatti, sul rispetto dei divieti e sulla repressione di ogni violazione delle prescrizioni, tanto de Magistris sposta il discorso su dopo, sulla ripresa, sulle “magnifiche sorti e progressive” della Napoli che verrà. Il perché è evidente. E così anche il calcolo che c’è dietro. Mentre il governatore si è sporcato le mani con la fase peggiore della crisi, la più “tosta“, il sindaco si è preparato invece a gestire quella della ripartenza, la più luminosa. In altre parole, finora il ruolo del protagonista è stato tutto di De Luca e al sindaco è andata bene così, tant’è che non ha fatto nulla per contenderglielo. Anzi, volutamente ha evitato di offrirsi alle telecamere e per giorni e giorni non ha rilasciato neanche una dichiarazione. Ma dopo? Ed ecco il calcolo.
Passata la tempesta, chi vorrà più saperne di divieti, mascherine, respiratori e reparti di terapia intensiva? Quando il peggio sarà passato e scatterà la grande rimozione, allora sì che converrà mettersi in mostra agitando nuove utopie. È appunto ciò che comincia a fare de Magistris. Come? Allontanando la dura realtà, ma non affrontandola e risolvendola, bensì, semplicemente, ponendola in una prospettiva sfavorevole alla vista. Quasi controluce. Dopo essersi defilato, dopo aver lasciato tutta la scena a De Luca, insomma, ecco che ieri il sindaco ha concesso due interviste in un sol colpo. Una al “Corriere del Mezzogiorno” e l’altra a “il Manifesto”. E questa è una sintesi del suo pensiero. I progetti. “Sono sicuro che molte cose cambieranno soprattutto per trasporti, ambiente e socialità“.
La profezia. “A Napoli avremo una rinascita che definirei mediterranea“. La certezza. “Qui la gente vorrà stare in strada, vivere la città, il suo clima, il mare“. L’avvisaglia del miracolo prossimo venturo. “I pescatori di Marechiaro mi dicono che mai come ora si sono visti pesci in così grande quantità”. Le richieste. “Reddito di quarantena da aprile a luglio, taglio del debito storico, maggiore liquidità, accesso al fondo crediti di dubbia esigibilità”. Non una parola sul come e perché quei debiti si sono accumulati; sulle ragioni per cui non hanno prodotto servizi qualificati; e sul perché ora tutto dovrebbe invece, per incanto, funzionare. E non un accenno alle forze da mobilitare: solo il volontariato, per intenderci, o anche l’imprenditoria sana di questa città? Il guaio delle utopie politiche è proprio questo. Tutte disegnano società desiderabili e stati assoluti di felicità.
Ma tutte nascono da una visione semplificata della realtà; da intenzioni, quasi sempre ottime, che però mai calcolano la volontà degli altri, i contesti storici, i molteplici interessi in gioco. Non a caso ieri de Magistris ha descritto un mondo ideale in cui i debiti vengono azzerati, nessuno più pagherà le tasse, i soldi pioveranno dal cielo e tutti vivranno felici e contenti. Sembra quasi di ascoltare “L’anno che verrà” di Lucio Dalla.
Ricordate? “Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno/Ogni Cristo scenderà dalla croce/E anche gli uccelli faranno ritorno”. Solo che la canzone continua. E fa così: “Vedi caro amico cosa si deve inventare/Per poter riderci sopra/Per continuare a sperare”. La rivelazione dell’inganno. Le utopie politiche sono appunto trappole. E dall’isola di Moro alla nuova Atlantide di Bacone, passando per la città del sole di Campanella, non hanno mai portato a nulla che valga la pena ricordare. Geometricamente perfette. Ma solo sulla carta.
© Riproduzione riservata