Il suo "testamento" al Fatto
Le sconfitte in tribunale di Scaprinato? Per lui restano medaglie…
Malinconico e sconfitto, il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, in pensione da pochi giorni, lascia una sorta di testamento al Fatto quotidiano. Il che non stupisce, e neanche scandalizza, ognuno sceglie i propri amici e i propri sostenitori. Quello che ha dell’incredibile, dello straordinario, è che il neo-pensionato, la cui tesi, su cui ha lavorato per qualche decennio, della Trattativa Stato-mafia, è stata demolita dalla corte d’appello d’assise di Palermo il 23 settembre 2021, lasci proprio quello come eredità. La sua sconfitta. “Stragi, depistaggi ancor oggi: li accerti chi viene dopo di me”, è il titolo del suo articolo d’addio.
Ogni medaglietta appesa sul suo petto segna una battuta d’arresto alla sua carriera. Pure lui le esibisce con un certo orgoglio, tanto da tentare di riscrivere la storia siciliana, quella vista con gli occhi delle inchieste giudiziarie, come se le cose fossero andate diversamente, come se la storia della mafia e delle stragi avessero un unico punto di riferimento, un (ancora sconosciuto) regista occulto responsabile di tutto. E anche come se, nel frattempo, tassello dopo tassello, tutto quel che lui, e insieme a lui un gruppo omogeneo di procuratori, avevano tentato di costruire, non avesse cozzato davanti a dati di realtà diversi e opposti da quel che loro avevano ipotizzato e sperato. “Chiudendo la porta alle mie spalle” è espressione triste e quel che viene dopo sembra una richiesta di affetto, di speranza perché tutte quelle scartoffie ormai finite nel cestino vengano in qualche modo salvate da qualcuno che abbia voglia nei prossimi trent’anni di ricominciare daccapo.
Tutta quanta la storia e i personaggi escono falsati. Sicuramente in buona fede, ed è questo che rende ancor più folle la narrazione. Fin dalle prime righe, quando l’ex procuratore ricorda il suo esordio in magistratura a Palermo nel 1988, anni in cui era in corso un “corpo a corpo” con la “mafia militare”, che era solo “la parte più visibile e appariscente”. Perché c’erano “sotterranee manovre di Palazzo” per fermare le inchieste. Potremmo fermarci qui, senza infierire su ricostruzioni e giudizi ormai sconfitti dalla storia. Ma il dottor Scarpinato insiste, con la sua lente deformante. Prendiamo la figura di Giovanni Falcone, per esempio. Parliamo di colui che ha avuto un approccio alle inchieste di mafia molto diverso da certi suoi colleghi, anche del Csm, i quali infatti gli hanno stroncato la carriera in magistratura, costringendolo ad andarsene, fino alla morte per mano della mafia. Non è vero che lui abbia lasciato Palermo “perché gli veniva impedito di svolgere le indagini sui livelli dei poteri criminali superiori alla mafia criminale”. Anzi, Falcone aveva sempre dichiarato di non credere al “terzo livello” della criminalità organizzata, proprio come era molto cauto su certe deposizioni dei “pentiti”. Uno come lui non avrebbe mai dato ascolto a uno come Massimo Ciancimino, anzi l’avrebbe subito incriminato per calunnia.
Lei poi, dottor Scarpinato, si fa vanto di aver “sottoposto a giudizio Presidenti del consiglio, ministri, vertici dei servizi segreti…”. Ma non ci dice come sono finiti quei processi. Per esempio, quando dice di non aver mai smesso di cercare “i mandanti” delle stragi degli anni 1992 e 1993, e poi parla dell’inchiesta “Sistemi criminali”, perché non ricorda che quel polpettone, che metteva insieme un po’ di tutto –per esempio la strage di Bologna con quella di via D’Amelio- finì nella bolla di sapone dell’archiviazione nel 1998? E che dire della sorte, due anni dopo, della storia del famoso “papello” di Totò Riina con le famose richieste per far cessare le stragi? Il papello si rivelerà un falso, ma il teorema era rimasto nella testa degli accusatori come Scarpinato. Il quale vorrebbe che oggi qualche suo erede rispolverasse un concetto a lui caro, il “depistaggio”. Perché, ogni volta che qualche pubblico ministero “antimafia” vede la propria ipotesi accusatoria cozzare con diversi dati di realtà, invece di accettare il fatto che i processi si vincono e si perdono, grida al lupo del “depistaggio”. C’è sempre un deus ex machina, il Cattivo contro i Buoni, che sono sempre loro.
Ma qualcosa manca dal testamento del dottor Scarpinato, e siamo sicuri che non c’è nella relazione che lui dice di aver lasciato in eredità ai colleghi: un riferimento, anche piccolo, all’inchiesta mafia-appalti condotta dal generale Mori. Quella su cui non si può neanche scrivere perché lui ci querela, come ha già fatto con il direttore Piero Sansonetti e il collega del Dubbio Damiano Aliprandi, che per quello stanno subendo un processo. Quella che è finita archiviata tre giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, cui stava molto a cuore, e che potrebbe averne provocato l’assassinio. Sarebbe stato un bel modo per ricordare un grande magistrato e anche un altro, pure lui grande, Giovanni Falcone. Quello che l’aveva avviata. E che altri hanno gettato alle ortiche perché preferivano occuparsi di terzo livello e di “depistaggi”.
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