Come un tempo non si poteva pensare al cinema senza progettare un cineforum che comprendesse la Corazzata Potëmkin, così oggi non si può parlare della qualità dei politici e della politica senza sentire disperati appelli al rilancio delle scuole di partito. Allora, appropriandomi del giudizio di Fantozzi, mi verrebbe da dire che le “scuole di partito sono una boiata pazzesca”. Ma su queste cose non c’è da scherzare. Allora cercherò di argomentare il fastidio che mi provoca sentire riferirsi alle scuole di partito come la soluzione chiave per risolvere il deficit di qualità della nostra attuale leva politica (termine anche questo assai discutibile che uso solo per rapidità). Mi concentro solo su due aspetti.

La prima conduzione

Il primo è quello più generale. Un partito ha bisogno di una sua scuola solo se ha o crede di avere una visione della società e della storia fortemente autonoma o antagonista da quella dominante che viene divulgata, trasmessa dalle istituzioni preposte all’insegnamento. Sono i partiti che si “partiscono” dalla società e che non si accontentano di migliorarla; quelli che ambiscono a crearne una del tutto diversa e per questo hanno bisogno di una “loro” cultura, autonoma e indipendente. Invece i partiti che si vivono come “parte” costitutiva del sistema politico e istituzionale esistente non hanno bisogno di una loro scuola. Usufruiscono delle scuole di quella società di cui sono e si vivono come una componente essenziale. Infatti sono consapevoli di non essere né la sola componente né quella fondamentale, né tantomeno quella sovra ordinante. Quella dalla quale dipendono le altre, per intenderci.

Serve la pratica

Mi sono chiesto: ma cosa dovrebbe insegnare sul fascismo e il nazismo una scuola di partito che non sia stato insegnato nelle scuole della Repubblica? Davvero i giovani di destra che ancora inneggiano al Duce lo fanno perché non hanno studiato bene o hanno avuto dei cattivi insegnanti nelle scuole di ogni ordine e grado? Non nego che qualche dubbio su questo sia legittimo averlo. Ma non credo possa essere il punto essenziale. Certe idee si riproducono autonomamente nella società ed è lì che bisognerebbe saper interagire adeguatamente. Questo vuol dire che non ci sia bisogno di scuole di formazione politica? No, certamente no. Anzi, ce ne è un gran bisogno. Ma devono essere scuole finalizzate a sostenere la pratica dell’agire politico nelle forme concrete nelle quali queste attività si presentano. Non ci vogliono iniziative che scimmiottino o riflettano gli schemi didattici delle scuole della Repubblica (università comprese). C’è bisogno di attività formative ad hoc che connettano chi studia e insegna per professione e chi per professione sceglie, decide, amministra, legifera, organizza movimenti e presenza sociali. Più che scuole di partito ci vogliono think tank focalizzati sulle politiche pubbliche capaci anche di dare i necessari riferimenti teorici nei vari campi disciplinari coinvolti.

La bottega, non la scuola

E qui arriva il secondo punto della mia riflessione: la critica delle attività formative basate sullo schema della lezione ex cathedra, l’intellettuale famoso o il noto politico che parlano per un’oretta e – se va bene – rispondono a qualche domanda. Io credo che questo modello non funzioni perché in determinate situazioni e a una certa età quello che fa apprendere è soprattutto l’esperienza che si vive. Nelle scuole concepite come eventi simbolici di celebrazione del leader l’unica esperienza che si vive è quella dello spettatore, del follower. Se qualcosa rende valida l’esperienza è quanto accade prima e dopo la lezione, sono le relazioni che si costruiscono nelle pause, sono le chiacchiere alla macchinetta del caffè. Per questo, invece di illudersi di risolvere i problemi del ceto politico facendolo “filtrare” nelle scuole di partito, bisognerebbe porsi il problema di quale sia l’esperienza formativa che si vive iscrivendosi, aderendo, associandosi, militando in un partito.
Il modello di riferimento è quindi più quello della bottega che della scuola.

Insomma, se si vuole formare una cultura politica adeguata al nostro tempo bisogna far vivere delle esperienze che incarnino quella cultura. Bisogna far vivere i partiti. Si impara molto di più gestendo un congresso, partecipando a una conferenza di organizzazione dove si votano mozioni, emendamenti, dove si confrontano giudizi diversi su decisioni amministrative e governative, dove si scelgono persone per cariche interne o pubbliche. Dove si formano i leader. Quei leader forti che, a giorni alterni, si dice o che siano indispensabili o che rappresentino un rischio per la democrazia. E si torna al tema irrisolto che anche chi denuncia la debolezza degli attuali partiti non affronta: quale dovrebbe essere la forma organizzativa, l’esperienza (formativa) che si dovrebbe vivere in un partito adatto al nostro tempo? Hic Rhodus!

Mario Rodriguez

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