Evocare sogni, quando si fa politica. è molto suggestivo. Sa tanto di americano ma anche di italiano: il gioco vale la candela, perché con le rivoluzioni del lontano futuro o le nostalgie del lontano passato i consensi restano a lungo in cassaforte. Però il tempo trascorre, e anche la politica cambia. Si diventa “ex” di tante ideologie, si devono fare i conti con i fatti. E con i nuovi sogni. “Il potere ha bisogno di una speranza, magari di un’illusione che sostenga ed esalti la fatica quotidiana di vivere”, scrive Stefano Folli. E rimprovera a Giorgia Meloni di non essere stata capace di crearle. A Folli si aggiungono altre voci, tutte dello stesso segno: secondo molti, Meloni segna il passo. Si sofferma su polemiche retrò e da capopartito, si rinchiude nel cerchio dei fedelissimi, indugia sul vittimismo e le recriminazioni.
Dopo due anni, quindi, il governo avrebbe bisogno di un bel tagliando. Ma se è vero, non è certo sul terreno della vis polemica: ognuno ha la sua, e fingersi De Gaulle o anche Draghi senza esserlo, non è una buona idea. E neppure del mancato sogno. Di illusioni ne abbiamo accumulate fin troppe, nei tre decenni del declino italiano. C’è la realtà che, come diceva Bettino Craxi, ha la testa dura. E ha il volto di un paese con un debito pubblico altissimo, forti sproporzioni geografiche, servizi in panne dalla sanità ai trasporti, dalla giustizia alle infrastrutture e al sistema carcerario, intoccabilità delle varie caste fra cui la prima è quella degli evasori fiscali, e soprattutto una crescita vicina allo zero.
Il futuro
Più di altri, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, facendo poco o nulla per costruire da soli la nostra ricchezza futura. Esiste un consistente gender gap nel lavoro, con penalizzazione delle donne nell’accesso, nelle retribuzioni e nella carriera. La bassa natalità è ormai ben più di un campanello d’allarme ma un’ipoteca serissima sulla fisionomia del Paese e la tenuta del sistema pensionistico. E le giovani generazioni sono al bivio fra i labirinti del precariato e la tentazione di andare via. La china discendente del nostro Paese non si arresta, in un continuo impoverimento del sistema industriale che in alcune aree del Sud rasenta la desertificazione.
Urge alzare l’asticella, perché alzare la voce non serve e non basta più. La malattia populista, infatti, si alimenta di sé stessa. Si mettono su indecorose gazzarre che fingono di promuovere nobili principi ma in realtà puntellano baracche politiche molto instabili. Le persone non contano più, né i morti di Bologna né due semplici ragazze che fanno pugilato. Conta solo sventolare bandierine, ottenere titoli sui giornali e così trovare un provvisorio sollievo al vuoto dei contenuti. Ma la politica resta un terreno molto più alto. C’è un’idea di Italia futura o si procede a tentoni? C’è in vista un sogno concreto? Ma non per la notte, per quando uno si risveglia e, con un certo eroismo, si fa il caffè.