Editoriali
Le verità scomode del femminismo di bell hooks
Si avvicina l’8 marzo, e come ormai da alcuni anni la rete Non Una Di Meno si prepara a scendere in piazza per uno “sciopero globale delle donne dal lavoro produttivo e riproduttivo”. Si tratta di dare a una giornata, che aveva assunto da tempo un significato essenzialmente commemorativo, il respiro ampio di un movimento, quello femminista, che vuole essere – per citare il titolo del libro di bell hooks -, “una politica appassionata” “per tutti”, la promessa di sovvertire un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie.
La cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (Picchio), e, insieme, il sostegno materiale, psicologico e affettivo necessario all’ impegno “civile” dell’uomo. «Per secoli -ha scritto Virginia Woolf – le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla» Uno degli slogan che abbiamo visto comparire in questi ultimi anni nelle manifestazioni dell’8 marzo in diverse città del mondo – “Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo” – dice con chiarezza che le donne stanno prendendo coscienza del fatto che vivere per l’altro e attraverso l’altro è la conseguenza di una svalutazione ed espropriazione di esistenza propria, l’asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri al benessere altrui. Invitare allo sciopero da compiti che le donne sono state chiamate ad assolvere nel privato e, con l’emancipazione, anche nelle loro occupazioni lavorative fuori casa – i “servizi alla persona” -, è già di per sé la rivoluzione di un sistema, patriarcale prima ancora che capitalistico, che ha separato il corpo e la polis, la violenza contro le donne e le rivendicazioni sindacali, i residui di un dominio che passa attraverso le vicende più intime e lo sfruttamento economico. Da un accostamento inedito, la sessualità e la politica, la vita intima e le istituzioni della sfera pubblica, non possono che uscire entrambe modificate.
Visto sotto questo aspetto, il femminismo non appare soltanto come “la rivoluzione più lunga”, ma quel “movimento di massa” che, secondo bell hooks, può portare allo scoperto “nessi” che ci sono sempre stati tra le diverse forme di dominio, servitù, disuguaglianze, che la storia ha conosciuto finora: sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, nazionalismo, ecc. Eppure, non si può non constatare quanto sia ancora esiguo il coinvolgimento delle donne, comprese le generazioni più giovani, in un impegno politico che interessa prima di tutto le loro vite e le contraddizioni che le attraversano, prese dentro l’ambiguità di un asservimento che parla il linguaggio dell’amore, dell’esaltazione immaginativa e al medesimo tempo dell’insignificanza storica, come già scriveva Virginia Woolf. Paradossalmente, è solo affrontando il perverso annodamento che ancora rende “impresentabili” alcuni aspetti dell’esperienza femminile, che si può sperare in una diffusione di massa per quella che è oggi la battaglia di una ristretta minoranza. Ad aprire con coraggio un varco nel “mare ribollente” “delle cose che non siamo stati capaci fino a questo punto di dire” (Asor Rosa) è bell hooks, scrittrice, attivista e femminista statunitense, i cui libri e il cui pensiero comincia a essere oggetto in Italia di particolare attenzione, soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel dicembre 2021.
Fedele all’assunto del femminismo radicale degli anni Settanta, che intendeva portare la politica fin dentro le pieghe più profonde e oscure della vita personale, bell hooks dice con chiarezza che “il problema è il sessismo” e che “ sarebbe ingenuo e sbagliato ritenere che il movimento sia riservato alle donne a discapito degli uomini.” (bell hooks, Il femminismo è per tutti, traduzione di Maria Nadotti, Tamu edizioni 2021). Femmine e maschi sono addestrati fin dalla nascita ad accettare pensieri e azioni sessiste, e di conseguenza “le donne possono essere sessiste tanto quanto gli uomini”. Dovrebbe essere evidente che nessun dominio può durare millenni senza una qualche “complicità” di chi ne è vittima. Le donne, private di potere e di cultura, come avrebbero potuto non fare propria la rappresentazione maschile del mondo, incorporare i ruoli che permettevano loro di sopravvivere, strappare qualche potere e qualche piacere dalla loro schiavitù? Come madri, incaricate della crescita e della prima educazione dei figli, sono diventate, loro malgrado, l’anello di trasmissione della cultura patriarcale.
Scrive bell hooks: «Una madre che potrebbe non essere mai violenta, ma che insegna ai propri figli, soprattutto ai maschi, che la violenza è uno strumento accettabile per esercitare il controllo sociale, continua a essere complice della violenza patriarcale. Il modo di pensare va modificato (…) Le attiviste femministe illuminate hanno capito che il problema non erano gli uomini bensì il patriarcato, il sessismo, il dominio maschile. Prenderne atto richiedeva una teorizzazione più complessa: richiedeva che si riconoscesse il ruolo svolto dalle donne nel mantenimento e nella perpetuazione del sessismo (…) Sopravvalutando la relazione materna, torneremo sempre al determinismo biologico e saremo sempre sottomesse. Credo che dietro l’attaccamento di molte donne al mito della maternità, si nasconda la paura di perdere quello che viene visto come l’unico privilegio femminile, la nostra zona di potere…»
Riconoscere che il potere di rendersi indispensabile all’altro è anche la debolezza delle donne, il capovolgimento del bisogno d’amore di una figlia nell’abnegazione e nello spirito di sacrificio di una madre, dovrebbe essere il punto di partenza per una teorizzazione che ha il suo fondamento nel dolore che la muove, nella capacità di “trasgredire”, allontanarsi dalla propria posizione quanto basta per interrogarla e modificarla. «Sono arrivata alla teoria disperata – scrive sempre bell hooks -, bisognosa di comprendere ciò che stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione». Difficile non riconoscere in questo tenace attaccamento alle vite singole, ai segni che una storia millenaria ha lasciato, oltre che nelle istituzioni pubbliche nell’ “oscurità dei corpi” (Bourdieu), la pratica rivoluzionaria dell’autocoscienza del femminismo degli Settanta. Sulle sue potenzialità di allargamento della consapevolezza critica, per donne e uomini, bell hooks non ha dubbi, così come sul fatto che la cultura femminista, una volta entrata in ambito accademico, anziché potenziarsi del legame con altre tematiche, dal classismo al razzismo, all’omofobia, ha finito per perdere la sua radicalità, diventando una disciplina accanto ad altre, “con la sola differenza che si occupa di genere.”
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