Il Professor Mauro Calise insegna Scienze politiche all’Università di Napoli Federico II ed è editorialista del “Mattino”. Lo abbiamo incontrato per una riflessione sugli eccessi del personalismo dei leader, nel contesto della crisi dei centristi.

I partiti sono ancora tali o sono diventati dei brand? E come tali, compaiono e scompaiono?
«Le organizzazioni politiche sono comunque delle strutture complesse: un pezzo di ceto politico non scompare mai del tutto. Si sedimenta. Venuto meno Berlusconi, Forza Italia è rimasta un partito del 10%. Certo, quando c’era lui avevano il 30%, ma comunque si sono strutturati e rimangono un pilastro della politica italiana».

Lo spazio del centrodestra, il perimetro, rimane quello da trent’anni.
«Il centrodestra vive una sua stabilità perimetrale. Ha sempre la stessa cifra complessiva in termini elettorali ma la distribuisce internamente in modo di volta in volta diverso. L’exploit è stato prima di Berlusconi, poi di Salvini, poi di Meloni. I leader contano: se hanno l’energia e la qualità di Berlusconi durano trent’anni, se sono Salvini o Meloni durano di meno».

La personalizzazione della politica è inesorabile, incancellabile?
«Si tratta di fenomeni ad alto tasso di volatilità ai quali siamo arrivati trent’anni fa, con la Seconda Repubblica. Nella prima si parlava dei partiti come nome collettivo. Nella seconda, ed è stato un fenomeno su scala mondiale, i partiti sono legati al leader. A cavalcare il trend fu Berlusconi, ma non ne fu l’inventore. Capì semplicemente che il mondo andava in quella direzione, una delle sue tante intuizioni».

Scala globale, dice. Ma noi abbiamo una coloritura, una leaderizzazione più forte?
«Altri paesi hanno avuto la leaderizzazione come conseguenza di sistemi elettorali e di forme di governo diverse. Gli Stati Uniti, la Francia, ma anche Uk e Germania hanno visto prevalere forme di esercizio del potere monocratiche, basate sulla forza del leader. Noi no, o non fino ad oggi. E così il nostro leaderismo risulta particolarmente vistoso anche perché stride con la rappresentazione delle istituzioni».

MAURO CALISE POLITOLOGO

La rete ha giocato un ruolo?
«Un ruolo decisivo. Non ci dimentichiamo mai che abbiamo a che fare con le dinamiche della rete, ciascuno di noi, per molte ore al giorno. E le dinamiche della rete applicate alla politica incidono sulla personalizzazione, sul leaderismo accentuato, sulla polarizzazione estrema. E aggiungo: con la rete abbiamo la micro-leaderizzazione, dove ciascuno si vede come leader e costruisce intorno a sé delle micro-community di seguaci, gli “amici”, i follower che devono avere il merito di riconoscersi nella nostra echo-chamber. Scopriamo l’acqua calda, dicendolo? Bene, ma ricordiamoci di averla scoperta nel nostro ragionamento».

Il leaderismo modella le strutture del consenso?
«Una volta i meccanismi di leaderismo personale andavano a incardinarsi in un contesto dove contavano i partiti e gli altri corpi intermedi. Oggi il leaderismo, soprattutto nelle realtà più piccole, talvolta prescinde dalla posizione politica e coincide con le caratteristiche di questa o quella personalità. Nei casi di Renzi e Calenda, è visibile il fenomeno. Sono dotati di carisma, di capacità attrattiva per un certo pubblico, piccolo o grande che sia. E quel pubblico si sposta con i leader, quando i leader si spostano, senza fare troppo caso alle scelte puntuali».

I limiti del personalismo, in questi due casi, sono visibili. I due litigano? La loro lite si trasforma nella crisi di rappresentanza di un’area politica, non nella fine di una amicizia.
«Sempre difficile tenere due galli nel pollaio. Lo spazio del centro, poi, è esiguo. E la crisi vera tra Renzi e Calenda nasce dall’aver capito benissimo che le dimensioni ridotte di quell’area non consentono a due realtà simili di coesistere e competere. Hanno plafonato e lo hanno capito, quindi inevitabile che cerchino, prima l’uno e poi l’altro, un approdo per crescere».

Un 7,5% esiste, per l’area liberaldemocratica. Manca un leader unificante.
«Non c’è un leader unificante, ma è comunque un’area piccolina. Il problema è far diventare grande quell’area. Quella era la scommessa, ed è una scommessa persa. In Europa c’è riuscito un unico leader ed è Emmanuel Macron. Sotto due grandi spinte: quella istituzionale della presidenza francese e la fortuna di avere contro una come Marine Le Pen, contro la quale è riuscito a coalizzare. Le dinamiche istituzionali ed elettorali sono molto importanti».

E da noi non giocano a favore del centro…
«No. Il problema è che quando hai un’area di centrodestra stabile, è più facile che emergano lì i nuovi leader. Perché hanno intorno un terreno fertile e un perimetro protetto. L’area del centro va inventata, non esiste. E una volta inventata presupporrebbe un sistema elettorale diverso, perché quello di oggi favorisce le grandi aggregazioni. A sinistra vedo che Schlein sta crescendo e si inizia a mangiucchiare anche un po’ del consenso di Conte: anche lì sono due vasi comunicanti».

Renzi è stato il leader del Pd, lo ha portato per l’unica volta nella sua storia al 41%.
«Renzi ha pescato nell’area elettorale del centro quando era a sinistra. Perché aveva la capacità di trattenere i voti tradizionalmente progressisti e quella, dovuta alla sua abilità, di aggiungere consensi diversi. Se sta ancora al centro perde quella capacità aggregativa trasversale che si è rivelata, negli anni, la sua vera forza».

Quindi l’operazione di oggi, di riportare Italia Viva a sinistra, è corretta?
«Renzi è più intelligente di me e di lei. Ha capito che può crescere solo così. Può anche diventare il leader di quel 7,5% che diceva lei, ma che se ne fa? Regna in beata solitudo? Uno come lui può fare il pungolo intelligente nel contesto di una coalizione più ampia, che per la sua storia è il centrosinistra».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.