Un autunno d’agosto
L’eccidio nazifascista del 12 agosto, il libro di Agnese Pini: “La verità giudiziaria dà dignità alle vittime”
Estate 1944, 12 agosto: tre compagnie nazifasciste circondano l’abitato di Sant’Anna di Stazzema (Lucca). Dopo averla definita ‘zona bianca’ per i civili, si avventano donne, bambini e anziani inermi e massacrano senza pietà 560 persone. Da quel momento inizia un mese e mezzo di crimini efferati da parte delle truppe di Hitler che ripiegano lungo la Linea Gotica. Tra questi anche l’eccidio di San Terenzo Monti (Massa Carrare) a cui è dedicato “Un autunno d’agosto”, la prima opera letteraria di Agnese Pini. L’apprezzata direttrice del Quotidiano Nazionale (Carlino, Nazione, Il Giorno) racconta, con un’intensità di scrittura appassionante e coinvolgente, uno degli episodi più bui di quell’agosto-settembre di 79 anni fa. Tra i 159 assassinati a San Terenzo, c’era anche una parte dei familiari di Agnese. Si salva solo (fingendosi morta) una bambina di 7 anni, Clara Cecchini, che racconterà tutto.
Dopo anni di racconti in famiglia, qual è stata la molla che ti ha spinto a scriverlo?
«È una storia che sentivo raccontare molto in casa da bambina perché mia nonna ci perse la madre e un altro pezzo di famiglia. La guerra in Ucraina mi ha dato la spinta per tornare a San Terenzo e raccontare quell’eccidio. Quando il 1° aprile 2022 il mondo scopre l’esistenza di Bucha, il primo crimine di guerra accertato compiuto dai russi, resto molto colpita. Fino a quel momento avevamo avuto la sensazione di sapere tutto della guerra grazie ai colleghi inviati, ai satelliti, ai social e ogni tecnologia. Tuttavia, non sapevamo nulla di Bucha: il crimine di guerra, oggi come 80 anni fa, si consuma sempre al riparo dagli occhi. Lo stesso copione di San Terenzo».
Il tuo libro è anche un atto di accusa nei confronti della giustizia mancata per quello ed altri eccidi.
«Quasi nessuna delle vittime di crimini di guerra (circa 20mila morti da Nord a Sud della penisola tra il ’43 al ’45, a cui vanno aggiunti i 40mila deportati) ha avuto giustizia. I processi fatti su questi crimini sono pochissimi e molto tardivi. Eppure la verità giudiziaria è importante perché ricostruisce anche una verità storica, dà dignità alle vittime; è importante per i familiari e lo è ancor di più per la Nazione».
Quanto ha inciso la mancanza di giustizia, sull’assenza di una memoria condivisa sul dramma del Ventennio e della Guerra? Perché l’Italia fatica ad aver una lettura collettiva su quei fatti?
«I motivi sono molti, ma tra questi c’è anche la giustizia negata. Ancora non abbiamo una memoria piena, condivisa e pacificata. Abbiamo nascosto troppo sotto il tappeto. Riconduco a quelle mancanze anche parte delle ragioni per cui il terrorismo rosso e nero in Italia è stato più violento che altrove: la mancanza di processi, di sentenze e di condanne ha incapsulato odi atavici e troppo grandi da reprimere».
Spesso il parallelismo tra nazifascismo e gli orrori compiuti da Putin in Ucraina viene definito sbagliato, antistorico. È davvero così o, invece, la “banalità del male” ha una sua ciclicità?
«Di fronte alla guerra, la griglia morale dentro cui l’umanità è immersa, viene meno. Questo succede in ogni guerra. E l’uomo è in grado di commettere atrocità a cui stentiamo a credere perché prive di ogni freno inibitorio. Accade in ogni epoca storica. In situazioni come gli eccidi, la prima reazione è l’incredulità. Quando sentiamo raccontare che i mercenari della Wagner sparano alla tempia di bimbi di 4-5 anni in Ucraina, rimaniamo increduli così come lo rimasero coloro che scoprirono gli eccidi di Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, San Terenzo Monti e i tanti che purtroppo si sono verificati in quello e in altri conflitti».
Ora che i testimoni di quel tempo stanno venendo meno, come tenere viva la memoria?
«Con rigore, attenzione e comprensione. La distanza del tempo, che trasforma la cronaca in storia, è un alleato fondamentale. Ai giornalisti si insegna che quando si racconta la cronaca non si possono dare troppi giudizi, perché le sfumature di un fatto sono tante. Ma il tempo della storia ti obbliga, invece, a dare un giudizio perché il trascorrere degli anni consente di definire chi stava dalla parte giusta e chi da quella sbagliata. Questa meravigliosa grande libertà di cui godiamo oggi, questa democrazia a cui non siamo disposti a rinunciare benché imperfetta, ci fa capire che c’erano una parte giusta e una sbagliata».
E forse anche la nostra Liberazione potrà essere celebrata in modo più condiviso.
«Con lo stesso grado di comprensione e rigore storico, dobbiamo arrivare al nostro 25 aprile con la consapevolezza che si celebra un presente di cui godiamo tutti. È quella la bilancia, il giudizio della storia che ci permette di non avere più incomprensioni e ambiguità che ci deve unire tutti quanti in maniera non più ambigua o equivocabile. Se usi l’occhio del cronista, è ovvio che ci sono le sfumature. Ma la storia, invece, ha una sua morale. È avvenuto così in Francia anche per la Rivoluzione francese».
Quale insegnamento ci può dare l’analisi dei fatti di sangue che macchiarono l’estate del ’44?
«La storia è maestra. Non nel senso tale per cui ci impedisce di ricommettere gli errori, altrimenti oggi avremmo la società perfetta visti tutti gli errori commessi dall’uomo fin qui. La storia è maestra perché ci consente di comprendere di cosa è capace l’uomo, ci rende consapevoli di chi siamo e cosa siamo. Di qual è il punto a cui possiamo arrivare. Non ci sono popoli migliori di altri; a fronte di alcune situazioni estreme l’umanità può diventare quella cosa lì. La storia insegna a comprendere, ma non a evitare. Quello tocca a noi».
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