Era il 1998 quando il parlamento britannico, agli albori della stagione del New Labour di Tony Blair, approvava lo Human Rights Act, con il quale incorporava nel proprio sistema giuridico i principi della European Convention of Human Rights. L’ECHR è un trattato internazionale che nulla ha a che vedere con l’Unione Europea, stipulato invece dal Consiglio d’Europa, organizzazione continentale fondata proprio a Londra, nel secondo dopoguerra. Per queste ragioni, il trattato è ancora vincolante sulla legislazione di Westminster ed è oggetto di bersaglio della frangia più estremista e isolazionista del partito conservatore britannico.

Non solo perché è stato utilizzato dai giudici della Supreme Court per dichiarare incostituzionale il piano Ruanda sui migranti, ma anche poiché la Corte Europea dei Diritti Umani è stata sinora l’ostacolo burocratico che ha impedito ai vari governi Tory di attuare nel pratico il trasferimento nel paese africano, giudicato insicuro. Un brutto colpo per quella che è considerata una battaglia simbolo della politica conservatrice post-Brexit.

Il parere di Sunak

Il primo ministro Rishi Sunak ha subito espresso il proprio disappunto per la decisione della corte, dichiarando di essere già a lavoro per siglare un nuovo accordo col Ruanda, scavalcando la decisione con un atto legislativo del parlamento che bollerà il paese di ricollocamento come “sicuro”. Nel corso del question time in parlamento, durante il classico confronto con il leader dell’opposizione Keir Starmer, lanciatissimo nella corsa a riportare i laburisti al governo, il leader Tory ha aggiunto piccato che “non permetterà ad una corte straniera, come la CEDU, di bloccare i voli di rimpatrio”.

La retorica che l’attuale capo dell’esecutivo alimenta risale già a quando Boris Johnson nel 2022, nell’ambito della stessa vicenda migranti, considerò l’uscire dalla Convenzione come “una possibilità”, un’intenzione che appariva già esplicita nel manifesto elettorale dei Tory nel 2019.

La spinta disgregativa

Sunak, in realtà, è apparso molto più cauto rispetto a questa eventualità in confronto ad altri esponenti del suo stesso partito: sarà certamente complice la posizione piuttosto debole del suo mandato al cospetto del consenso popolare, è parso quasi accomodante, dando l’impressione di considerare l’exit strategy solo in extrema ratio. Di tutt’altra opinione è, come noto, l’ormai ex ministra Suella Braverman, che ha dato apertamente del traditore al suo leader di partito in una lettera, in cui rivela la promessa fattagli dal primo ministro in privato: uscire dall’accordo qualora avesse ostacolato l’agenda di governo. Una spinta disgregativa che è lo specchio di una corrente di partito che non si pente, di fronte all’evidente danno subito dall’economia UK, della propria rotta isolazionista e anti-europea, ma anzi insiste nel tentativo di dirottare il paese verso un naufragio in mare aperto. I cittadini, però, li attendono al varco, o meglio, alle urne, che, salvo sorprese, attendono il Regno Unito tra circa un anno.

Gaetano Gorgone

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