"Diritto verità giustizia"
Legge e letteratura, l’abbraccio sotto il segno di Sciascia
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1. Nella ricorrenza dei cent’anni dalla nascita, molte sono state le iniziative editoriali dedicate a Leonardo Sciascia. Meritoriamente. Rispetto alle altre, l’omaggio curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti, Diritto verità giustizia (Cacucci, 2021, pp.158) ha una sua felice originalità: i due Curatori sono giudici di Cassazione, così come giuristi (accademici, magistrati) sono coloro che al libro hanno collaborato riflettendo sul trittico del titolo attraverso il filtro dei romanzi sciasciani. A ciascuno il suo: Il giorno della civetta (Natalino Irti), Il Consiglio d’Egitto (Massimo Donini), Morte dell’inquisitore (Davide Galliani), A ciascuno il suo (Mario Serio), Il contesto (Giovanni Mammone), Todo modo (Nicolò Lipari), La strega e il capitano (Gabriella Luccioli), Porte aperte (Ernesto Lupo). Il libro va così ad arricchire la collana “Biblioteca di cultura giuridica” diretta dal Primo Presidente di Cassazione, Pietro Curzio, che ne firma la presentazione. Per molti, c’è di che trasalire. Obbedendo alle categorie estetiche crociane ma anche alle teorie del formalismo giuridico, un volume del genere è contronatura: diritto e letteratura, infatti, abitano mondi distinti e distanti. Ne siamo proprio certi?
2. Rispondo con due semplici lemmi: legge e libro. «Legge», nel suo essere a un tempo forma verbale e sostantivo, fonde in una sola parola l’atto della lettura e l’oggetto della giurisprudenza. «Libro», dal latino liber che è anche radice della parola «libertà», associa nella comune genesi l’esito della letteratura e il fine ultimo del diritto quale regola e limite al potere. Sono sovrapposizioni semantiche rivelatrici: se le parole indicano le cose, ambedue raccontano dello stretto legame tra diritto e letteratura. Lo testimoniano i corsi accademici di Law and Literature importati dagli Stati Uniti in alcuni atenei italiani, vera e propria «pietra tombale sulla mortale autoreferenzialità del diritto» (Lanfranco Caminiti, Il Dubbio, 18 ottobre), che della letteratura condivide il vettore (la parola) e l’oggetto (la vita stessa). D’altra parte, un giurista colto è meglio di un ignorante laureato perché «l’italiano non è l’italiano: è il ragionare», come spiega l’anziano professore al suo allievo scarso, ora tronfio procuratore della Repubblica: «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto» (Una storia semplice).
Tutto ciò è particolarmente vero per i romanzi di Sciascia che possono essere letti «come un unico grande libro sulla giustizia» (Lupo). Dunque si giustifica, eccome, questo volume collocato «sul confine tra letteratura e diritto» (Curzio), dove i ruoli tra lo scrittore e i giuristi si capovolgono: non è il primo a porre domande di senso al diritto, perché sono i secondi a interrogarsi sul senso di quelle sue domande, dando vita a una «affascinante scommessa» editoriale (come confessano i due Curatori). Inutile recensirne i singoli contributi: il volume già ne offre un esame preciso nel testo finale di Paolo Squillacioti, che delle opere sciasciane è il curatore per Adelphi. Meglio annotare le suggestioni che le sue pagine restituiscono al lettore sui tre temi del titolo: diritto, verità, giustizia.
3. Verso il diritto applicato Sciascia esercitò tutto il suo scetticismo cognitivo, frutto di un pessimismo storico ereditato da I vicerè di De Roberto (romanzo per lui secondo solo a I promessi sposi). Per Sciascia «esiste la menzogna del diritto» che si fa storia ufficiale, come con il falso manoscritto al centro de Il Consiglio d’Egitto. Più chiaro di così: «il diritto serve al potere, e non il potere al diritto», almeno prima dell’avvento delle Costituzioni rigide e garantite (Donini). Al contrario, dello Stato di diritto come «Stato della legge e razionale misura della convivenza» (Irti), Sciascia è uno strenuo difensore. Ne invoca il pieno rispetto contro la scorciatoia dello stato d’eccezione anche nel contrasto alla criminalità organizzata, ad evitare che «ad una mafia si opponga un’altra mafia costituita da un potere che non ammette critica o dissenso» (Luccioli). Scrive un romanzo, Porte aperte, che è un «libro-manifesto contro la pena di morte» (Lupo) pubblicato in anni in cui la si invocava in Parlamento mentre era «surrettiziamente reintrodotta dai terroristi» (Squillacioti).
In Morte dell’inquisitore parla «della pena perpetua al pari di una pena senza speranza» (Galliani) come oggi fanno le Corti dei diritti, la magistratura di sorveglianza, Papa Francesco. Fa avvertire improvvisamente all’abate Vella «l’infamia di vivere in un mondo in cui la tortura e la forza appartenevano alla legge», fisicamente, «come un urto di vomito» (Il Consiglio d’Egitto). È lo Sciascia polemista che molto ci manca oggi, capace di stare ostinatamente in minoranza perché «l’unanimismo era per lui l’altra faccia dell’intolleranza» (Squillacioti).
4. Delle tre in copertina, la parola più aliena a Sciascia è «la verità». Segnala acutamente Galliani che molti suoi romanzi hanno titoli ossimorici: Morte dell’inquisitore, Il giorno della civetta, Porte aperte. Sono titoli autobiografici. L’ossimoro, infatti, è una figura retorica che produce una suggestiva contraddizione (semantica). È proprio il tratto esistenziale e intellettuale rivendicato da Sciascia, che desiderava per sé l’epigrafe «Ha contraddetto e si contraddisse»: come a dire – aggiungeva – «che sono stato vivo in mezzo a tante “anime morte”, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano» (La Sicilia come metafora, Mondadori, 1979). Del resto, «l’essere liberi impone, prima di tutto, una libertà da sé stessi» (Lipari).
La verità, per Sciascia, è solo un’aspirazione mai raggiunta, perché perennemente manipolata e oscurata dal potere e dai suoi zelanti esecutori, chierici del diritto compresi. Quel tanto di verità possibile è attingibile solo attraverso la letteratura, perché lo scrittore vede e intercetta cose che sfuggono allo storico, al filosofo, al politico (Luccioli). Autorevolmente Squillacioti conferma che, proprio perché strutturalmente ambivalenti, letteratura e verità in Sciascia si specchiano l’una nell’altra. Viene allora da pensare che lo scrittore siciliano avrebbe apprezzato uno degli esiti (Gianrico Carofiglio ne ha contati una ventina) che si ottengono anagrammandone la parola: «la verità» è «relativa». Contrario a interpretazioni assolute e definitive, avrebbe invece respinto l’opposto anagramma, secondo cui «la verità» è «rivelata»: concetto straniero a un siculo abbeveratosi alla «diffrazione della verità di matrice pirandelliana» (Squillacioti).
5. Del titolo resta la giustizia, declinata nel libro – coerentemente con le opere sciasciane – nell’attività del giudicare.
È l’esperienza che accomuna i due Curatori e molti degli Autori, consapevoli della crisi del classico, rassicurante schema sillogistico fatto-fattispecie legale-decisione. Una crisi dovuta a molteplici fattori: la cessione di sovranità a favore di ordinamenti sovranazionali, il dialogo giurisprudenziale tra le Corti (Cassazione, Consulta, Corte UE, Corte EDU), l’interpretazione costituzionalmente orientata della legge, il fatto come accadimento problematico e non più dato storico oggettivo, la ragionevolezza quale principio informatore dell’ordinamento e onnivoro criterio di giudizio. Il problema del giudicare è al centro dello «strabiliante dialogo» (Mammone) di una nota pagina de Il contesto. All’ispettore Rogas che lo risolve «come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio», replica il presidente della Corte Suprema Riches secondo cui – metafisicamente – ogni sentenza, in quanto tale, è disvelamento inevitabile e necessario della giustizia: «Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanzazione si è compiuta?».
Di quel dialogo, Sciascia ci ha lasciato un poscritto (ricordato da Squillacioti): «Ho fatto dire a un giudice cose che mi parevano, al momento in cui le scrivevo, paradossali fino alla caricatura» e invece «avevo toccato l’essenza di un’ideologia, anche se non dichiarata, piuttosto diffusa nell’universo giudiziario». A questa sorta di autolegittimazione del potere (giudiziario), Sciascia contrappone «la dolorosa necessità del giudicare», come recita il titolo del suo breve testo pubblicato in appendice al libro. Anche qui l’attività del magistrato e dello scrittore si toccano. Entrambe dovrebbero essere «razionalmente tormentate» (Squillacioti). Entrambe non possono sottrarsi al giudizio altrui fino a risponderne: infatti Sciascia, che nella sfera pubblica si esponeva «sempre in prima persona, mai per interposta persona» (Galliani), avvertiva la necessità di misure di responsabilità civile del magistrato. Il gioco dei rispecchiamenti si può spingere oltre. Sciascia è stato un «intellettuale disorganico che si nutre del dubbio inteso come migliore antidoto al dogmatismo» (Lipari): non è forse ciò che dovrebbe essere il giudice? Il suo stile era asciutto, fluido, «mai ridondante, decisamente antiretorico, rigorosamente aderente alla realtà dei fatti» (Luccioli): non è forse così che andrebbero scritte le sentenze?
6. Si tratta, dunque, di un libro prezioso su libri preziosi che fa riflettere soprattutto chi il diritto, la verità (processuale), la giustizia è chiamato ad accertare e garantire: come il piccolo giudice a latere, protagonista del romanzo Porte aperte, che del giurista e di Leonardo Sciascia è «il suo somigliantissimo ritratto» (Lupo). Buona lettura.
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