Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha annunciato le proprie dimissioni nello scenario di devastazione civile che pone il paese nordamericano ai vertici dell’emergenza antisemita nel sistema occidentale. Né l’Inghilterra della polizia che fischietta davanti ai cortei filo-terroristi, né gli Stati Uniti delle piazze inverdite dai vessilli di Hamas, né la Francia dei comizi elettorali in cui si denuncia che Israele addestra i cani per stuprare i palestinesi, né l’Italia dei Pride Judenfrei e dei cori “fuori i sionisti da Roma”, a un passo dal ghetto che fu rastrellato, nulla di questo schifo pur messo insieme raggiunge il culmine cui invece si è elevata la violenza antiebraica da Ottawa a Montreal, da Toronto a Vancouver.

Il numero, la frequenza e la gravità delle aggressioni e degli attentati antisemiti dal 7 ottobre del 2023 a questa parte, specie se rapportati alla quantità dopotutto esigua della popolazione e all’inaderente immagine di placidità della società canadese, sono raggelanti. I luoghi di culto sistematicamente attaccati, devastati o dati alle fiamme, le case e gli esercizi commerciali degli ebrei assediati, le scuole presidiate da turbe che molestano gli studenti ebrei nell’impassibilità dei docenti e delle forze dell’ordine, le scuole ebraiche prese a fucilate, una propaganda senza pari – condotta da politici, intellettuali, opinion leader – circa la cospirazione che avrebbe consegnato il potere canadese nelle mani della perfidia dominatrice ebraica.
Discutiamo di un aumento del 670% dei gesti e fatti di antisemitismo, mentre, a fronte di una popolazione ebraica che non tocca l’1.5%, i delitti di odio etnico-religioso riguardano al 70% la popolazione ebraica stessa.

Il dimissionario Justin Trudeau ha mostrato di voler gestire quelle violenze come se si trattasse di spiacevoli fenomeni di inurbanità, astenendosi per un anno intero dall’affrontare fattivamente l’emergenza che travolgeva il paese rimesso al suo governo salvo, naturalmente, prestarsi alle telecamere per dichiarare il suo omaggio alla Corte Penale Internazionale che emetteva gli ordini di arresto a carico del primo ministro israeliano e del suo ministro della Difesa. Persino in occasione dell’anniversario del Sabato Nero, in un comunicato di poco dispendiosa solidarietà con il popolo ebraico, riusciva a impedirsi di fare obliqui riferimenti alla sofferenza del popolo palestinese nella guerra di Gaza: una realtà bensì effettiva e assai tragica, ma di sguaiata evocazione discutendo degli eccidi del 7 ottobre e delle violenze antisemite a diecimila chilometri di distanza.

La realtà è che quel giovane politico, spensierato in una sua idea di mondo carino e salubre, è afflitto come tanti suoi colleghi dall’idea molto sbagliata e altrettanto pericolosa secondo cui la pace è una specie di “diritto” acquisito anziché un “fatto” che occorre guadagnare e difendere. E, quanto all’antisemitismo, anche lui, come molti suoi omologhi progressisti, ritiene che a contrastarlo siano buoni e sufficienti i canoni delle denominazioni inibitorie, i protocolli della beneducazione costituzionale che ripudiano l’antisemitismo in teoria salvo farsi remissivi e inconcludenti quando concretamente fiorisce in stelle e svastiche sulle case degli ebrei e quando materialmente li aggredisce. È l’atteggiamento a dir poco colposo di cui sono responsabili i molti che, affettando spirito umanitario, invocano la soluzione di un conflitto di cui rinnegano l’origine e mistificano la natura, non capendo o facendo finta di non capire che la mancanza di chiarezza circa la portata esistenziale della guerra di Gaza è esattamente ciò che porta all’incendio delle sinagoghe ed alle università in cui si pratica la caccia all’ebreo.

Perché cedere, o peggio partecipare, alla retorica sul genocidio, sulla pulizia etnica, sulla punizione collettiva, sul deliberato sterminio di donne e bambini, sulle presunte carestie, se non ha l’intenzione ha almeno l’effetto di istigare le violenze antisemite di cui poi ci si dice allarmati. Così come trascurare, o denegare senz’altro, che la sorte dei civili è resa tanto più penosa per responsabilità di chi addirittura rivendica di usarli come attrezzi, significa condannarli doppiamente al destino sacrificale per loro apprestato dai macellai che si insinuano nelle scuole e negli ospedali, e che sequestrano gli aiuti per rivenderli a strozzo mentre le platee della stolidità universale denunciano l’uso della fame come arma di guerra.
Il leader canadese è stato parte di questo vasto movimento reticente e ambiguo, e ha fatto molto danno in casa propria e fuori.