La ricorrenza
Leonardo Sciascia difese il diritto ma fu diffamato: le sue battaglie garantiste sono ancora incomprese
Ovunque si trovi, par di vederlo, Leonardo Sciascia. Magari con attorno il gruppo di suoi amici: Gesualdo Bufalino, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici, Vincenzo Consolo, Mario La Cava, Marco Pannella, Francesco Rosi, Roberto Roversi, Aldo Scimé, Elvira Sellerio, Enzo Tortora, Antonello Trombadori, Tono Zancanaro, gli altri del cenacolo romano da “Fortunato” al Pantheon, o alle gallerie d’arte di Palermo, o la libreria antiquaria “Palmaverde” di Bologna… la Benson & Hedges eternamente accesa e aspirata; e un sorriso misto indulgente e ironico…
Accade che oggi di Sciascia parlino in tanti. Troppi. Quand’era in vita, in molti – e anche chi ora lo incensa – lo hanno ricoperto di insulti. C’è chi gli ha perfino dato del mafioso, per le sue coraggiose posizioni, rigorose e radicali, per la difesa del diritto e la giustizia giusta. Gli hanno perfino dato del quaquaraquà: l’ultima delle cinque categorie, la più infamante, con cui il mafioso Mariano Arena de Il giorno della civetta suddivide l’umanità.
Sono arrivati a sostenere che quel romanzo esalta la Cosa nostra, che i mafiosi ne vengono celebrati, un po’ come negli ingenui romanzi di William Galt-Luigi Natoli. Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci, padre nobile della sinistra, da sempre amico ed estimatore di Sciascia, anche nelle polemiche che non sono mancate. Quando si parla di questo episodio, lo capisco dalle espressioni del viso, più ancora che dalle parole, ancora freme per l’indignazione, l’amarezza; un furore represso a fatica, il suo: «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra; non ne voglio neppure fare il nome. È la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere.
I mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista.
Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque. Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…».
Questo è il romanzo che fa “piacere alla mafia e la esalta”. Questo il destinatario del sanguinoso insulto, “Quaquaraquà”, quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…».
Ancora Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare… Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere… quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il CSM, e i suoi metodi di nomina.
Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri, illeciti, scopi: «…Certo in una regione che dal 2001 al 2008 ha avuto un presidente condannato per mafia, l’antimafia è stata usata sia nelle lotte intestine interne ai partiti che per sostituire un blocco di potere a un altro…». Più recente, ma non meno istruttiva lettura, quella de Il sistema Montante dell’ex sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto (Bonfirraro editore). Libro curiosamente passato inosservato (pochissime le eccezioni). Come racconta il suo autore, si tratta di una “pentola maleodorante” su un sistema di potere il cui architrave era costituito «dall’ex presidente di Confindustria Sicilia e responsabile nazionale per la legalità di Confindustria Nazionale… Oggi risulta condannato a 14 anni di reclusione. Fino a qualche anno fa era ritenuto ed accreditato unanimemente un insostituibile ‘apostolo dell’antimafia’».
Schivo, discreto, Sciascia incarna quel decoro e quell’eduzione che sono la cifra di un’Italia che si vorrebbe e che spesso non è. È nato cent’anni fa, a Racalmuto, un paese siciliano arroccato vicino ad Agrigento. Per tutta la vita la Sicilia, e quel paese gli rimangono nel cuore. Dice: «Incredibile è l’Italia; e bisogna andare in Sicilia, per constatare quanto lo sia».
Ecco una sommaria antologia di “apprezzamenti” che patisce in vita (ma qualcuno anche da morto non ha mancato di dargli il calcio dell’asino): “Codardo”; ”Sprazzi di autentica balordaggine”; “Aspetto profondamente reazionario”; “Amara e inutile vecchiaia”; ”Lancia avvertimenti mafiosi”; ”Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese”; ”Penoso”; “Travolto dagli anni e da antichi livori”; ”Gravissimi furono i suoi silenzi”; ”Stregato dalla mafia”; ”La sua funzione è esaurita”; ”Non ciserve più”: ”Fa l’apologia della mafia”; ”Non è più capace di immaginare un uomo vero”; ”Il suo credo: vendo, ergo sum”; ”Sta finendo piuttosto male”; ”Disfattista”; ”Arrogante”; ”Si riduce in misere polemiche sulle Brigate Rosse e l’antimafia”; “Trozkista”, “Nei suoi romanzi, qualunquismo e codardia civile”; “Iena dattilografa”…
Sciascia: uno degli scrittori più colti e raffinati del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Con i suoi romanzi, i suoi racconti, con i suoi interventi ha saputo raccontare l’Italia e gli italiani; al pari di autori giustamente considerati “classici”: Alessandro Manzoni, Luigi Pirandello, Federico De Roberto… Per aver saputo dire tante, indicibili, verità è stato (ed è) tanto amato e detestato. Con l’aiuto di chi lo ha frequentato e conosciuto si proverà a raccontare l’uomo e lo scrittore Sciascia: che, al pari dell’amato Georges Bernanos, preferisce perdere un lettore, piuttosto che ingannarlo…
Stefano Villardo, classe 1922, amico di Sciascia da sempre. Per Sellerio ha pubblicato un paio di libri che “devono” figurare in una biblioteca che si rispetti: Tutti dicono Germania Germania; e A scuola con Leonardo Sciascia, una lunga conversazione con Antonio Motta.
A quindici anni frequenta la prima classe dell’Istituto Magistrale a Caltanissetta. Gli occhi gli si illuminano, quando racconta di questa fantastica amicizia: «Tutto nasce da una bocciatura…Una fortunatissima bocciatura, grazie alla quale diventai compagno di scuola, di banco prima, e per il resto della vita poi, di Leonardo. Era un ragazzo timidissimo che non sapeva rispondere; forse non voleva rispondere alle domande dei professori. Però i suoi temi erano stupendi. Il professore, Giulio Granata, si incaponì, e sprecò la nottata intera per capire dove Leonardo poteva aver copiato il tema. La mattina dopo le parlò con il preside Luigi Monaco, era davvero un ottimo preside. Lo ascoltò paziente, e poi gli disse: è inutile che cerchi, è Leonardo che scrive così. Granata non se ne capacitava: ma se quando lo interrogo non risponde mai alle domande… E Monaco: non risponde per timidezza. Leonardo è la timidezza in persona. Poi si è sbloccato… Stiamo parlando di uno dei più grandi scrittori del Novecento, non solo italiani. La sua prosa mi ha sempre affascinato, uno stile limpido, chiaro, diretto, preciso, profondo. Chi legge i suoi libri non può non riflettere sulle cose essenziali della vita. Leonardo era un vero uomo: di fede di ingegno, di rispetto…».
Maurilio Catalano è un pittore titolare della galleria “Arte al Borgo” di Palermo. È lì che Sciascia ama trascorrere pomeriggi a conversare con gli amici. «Un giorno Sciascia viene nella mia galleria; io non lo conosco, lui non conosce me. Si presenta: ‘Sono Leonardo Sciascia, vivo a Racalmuto, sono qui a Palermo per caso, e sono venuto a trovarvi…’. Mi dice che è a conoscenza della nostra passione per la grafica che lui condivideva. Cominciò da quel giorno a venirci a trovare: guardava curioso, discuteva con noi… È cominciata un’amicizia vera, che ogni giorno si suggellava grazie a una colla particolare, che non è in vendita: io lo ascoltavo e lui mi ascoltava, ci si studiava… ci siamo trovati… veniva alla Galleria, si prendeva un caffè, si parlava. Era sempre molto cordiale e disponibile. Non dico che desse confidenza, ma ascoltava, era curioso di tutto… era estremamente semplice. Lui per esempio, ai giovani voleva molto bene, però non dovevano essere cretini…Lui andava contro il cretino. Perché un cretino non è interessante, perché a un cretino, diceva, non puoi rubare nulla…».
Matteo Collura, giornalista, scrittore, autore di un’importante biografia di Leonardo Sciascia, Il maestro di Regalpetra (La nave di Teseo), gli è stato molto amico: «Sciascia è stato uno scrittore anomalo nella storia della letteratura italiana. Appartiene a una tradizione più francese che italiana: un’idea di letteratura che di cui fanno parte Emile Zola e prima ancora Voltaire. Mi riferisco al famoso “J’accuse…!” di Zola, il titolo dell’editoriale su L’Aurore, per denunciare i persecutori del capitano ebreo Alfred Dreyfus, e le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo-montatura che lo vide condannato per alto tradimento, uno dei più famosi “affaires” della storia francese; e anche il “Caso Calas”, una vicenda giudiziaria del XVIII secolo a Tolosa, diventato famoso per l’intervento di Voltaire… Sciascia è stato protagonista di uno di questi casi, con L’Affaire Moro, e si iscrive in questa categoria letteraria. Ecco: Sciascia forse andrebbe ricordato in una sorta di appendice della letteratura francese: un’appendice che ha dei nomi che brillano, ma che francesi non sono: Manzoni e Sciascia… Non era uno scrittore cattolico, ma era animato da spirito autenticamente cristiano. L’epigrafe che vedrei sulla sua tomba è: cristiano senza chiesa, socialista senza partito… Le racconto un aneddoto che dà la cifra della persona, un episodio che ho visto con i miei occhi; era venuto a Milano, mi aspettava nella hall dell’albergo. Quel pomeriggio, prima di me, erano arrivati i rappresentanti di una grande casa editrice, ormai si può anche fare il nome, la Mondadori: erano disposti a dargli cinque miliardi di lire (ancora non c’era l’euro), per avere i diritti di tutta l’opera completa. Lui rifiutò. Schiacciando l’ennesima sigaretta fumata sul posacenere, me ne spiegò la ragione: ‘Ma cosa vogliono da me, per offrirmi tanti soldi?’. Ecco: quanti pensi che siano gli scrittori che avrebbero rifiutato tutti quei soldi, pur di restare uomini e scrittori liberi?».
Ancora Macaluso: «Ho conosciuto Leonardo nel 1941, in pieno fascismo. Ero un po’ più giovane di lui, avevo già aderito alla cellula comunista di Caltanissetta. Leonardo era molto amico di un altro ragazzo che però studiava al liceo, Gino Cortese. Era un giovane comunista molto spiritoso, Leonardo con lui ha avuto un rapporto che è proseguito nel tempo. Lo stesso Leonardo racconta che proprio Gino lo introduce non solo all’antifascismo militante, ma nell’ambiente comunista, anche se non si è mai iscritto al Pci. Leonardo questo rapporto lo racconta in alcune pagine delle Parrocchie di Regalpetra; sono episodi anche divertenti, Gino era molto spiritoso. Leonardo, per esempio, racconta che Cortese andava al Gruppo Universitario Fascista, e lì declamava i discorsi di Stalin, ma dicendo che si trattava dei discorsi che aveva fatto un gerarca fascista; e quelli se la bevevano… C’è una cosa che mi preme, e la voglio dire soprattutto ai giovani, a chi certi giorni non li ha vissuti perché è nato dopo: Leonardo con i libri che ha scritto, anche con la sua produzione giornalistica, penso ai suoi scritti sul Corriere della Sera, su La Stampa, o L’Ora di Palermo, ci manca. Ora che non ci sono più, lui e Pier Paolo Pasolini, si avverte un grande vuoto. Sciascia e Pasolini hanno animato le battaglie politico-culturali nel nostro Paese, come nessun altro ha saputo fare.
Non ci sono più “firme” come quella di Sciascia o Pasolini… Leonardo, in particolare, protagonista con i suoi libri e i suoi articoli di ‘polemiche’ su un terreno che ancora oggi considero fondamentale, quello della giustizia. Aveva l’autorità, il coraggio di sostenere queste battaglie garantiste sulla giustizia, la sua è stata una voce fondamentale. E ha avuto un valore fondamentale nella formazione politico-culturale del nostro Paese: in quegli anni, quei dibattiti sulla giustizia hanno avuto un carattere e un senso che oggi purtroppo non vedo più. Da questo punto di vista Leonardo non è stato solo un grande scrittore, ma anche un grande italiano; al tempo stesso un uomo dell’Europa, ha incarnato con i suoi scritti e le sue battaglie politico-culturali, il meglio che questo Paese poteva esprimere».
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