“Sciascia, un maestro oltre la letteratura”. Questo è il titolo con cui Roberto Andò ha scelto di ricordare nei giorni scorsi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli l’amico Leonardo Sciascia in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita. L’intendimento è stato chiaro da subito: guardare allo scrittore puntando all’intellettuale nel senso che lo stesso Sciascia volle dare al termine già in un articolo uscito su La Stampa il 25 novembre 1977: «L’intellettuale è uno che esercita nella società civile […] la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze sociali».

Tra i molti fatti a cui lo scrittore diede spazio e interpretazione mi piace ricordare (anche per la rimbombante attualità del tema tutto italiano della calpestatissima presunzione costituzionale di innocenza in rapporto al comportamento dei media) quello che coinvolse Enzo Tortora. Quando il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato (sarà poi condannato in primo grado senza prove) come spacciatore e sodale di Cutolo con quello che fu definito da Giorgio Bocca «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», Sciascia pubblica a poche settimane di distanza (7 agosto 1983) un articolo sul Corriere della sera su quel caso eclatante di alterazione della verità. Lo scrittore prende subito posizione in termini difensivi, senza tentennamenti: «E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è». Già chiuso in un «tunnel assurdo, demenziale, basato sul niente», Tortora commosso gli indirizzerà un telegramma, ringraziandolo per aver visto con «occhi profetici la tremenda realtà che lo imprigiona».

Da quel momento i rapporti tra i due si consolidano e Tortora affida allo scrittore i suoi tormenti di detenuto. Le sue riflessioni, registrate con precisione nelle lettere a lui indirizzate dove la descrizione puntuale dei fatti e dei movimenti a Regina Coeli prima, poi agli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, fa da sfondo a una lucida, disincantata e amara constatazione dell’uso alterato della legge in un Paese che non solo ha perso il senso della Giustizia ma ha distrutto con la vita di un uomo la sua stessa civiltà. Per Sciascia sono quegli gli anni di composizione di Porte aperte (1987), in cui affronta proprio il tema della giustizia e della libertà sopraffatte da un giustizialismo che rende la pressione dell’opinione pubblica più efficace dell’azione di un giudice onesto. Protagonista ne è un giudice limpido servitore della giustizia, in questo caso, a mettere a repentaglio la sua carriera, pur di difendere, seppur invano, l’imputato dalla pena capitale. Il suo punto di vista è che opporsi alla pena di morte – invocata a gran voce, dalle autorità così come da una città che ha aperto le porte della follia ­ «è un principio di tal forza che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo». «L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere» dichiarerà con fermezza il “piccolo giudice”. Si tratta di difendere la propria visione dei fatti nella convinzione di perseguire la giustizia, anche quando si è soli contro l’opinione più diffusa.

Frattanto Tortora era stato assolto dalla Corte d’appello di Napoli nel 1986, proprio in quella città che era stata palcoscenico e punto di inizio dell’irrisolta scomparsa di Majorana a cui Sciascia dieci anni prima aveva voluto offrire una possibile, sebbene artificiosa, soluzione. La relazione intrecciata con solidità e rafforzata dalla comune militanza nel partito radicale non durerà che qualche anno stroncata dalla morte prematura di entrambi (Tortora nel 1988, l’anno seguente lo scrittore). Ne resta però traccia nelle disposizioni testamentarie di Tortora che volle che le sue ceneri fossero riposte accanto a una copia della Storia della colonna infame nell’edizione con prefazione per l’appunto di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Sellerio.

Se la Storia manzoniana ha un senso nella nostra storia attuale, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. Certamente in questa battaglia di responsabilità Sciascia e Tortora s’incontrano, così come pure condividono un medesimo disincanto rispetto a una realtà che appare ostile al vero e al giusto. Un disincanto segnato dall’epitaffio scritto da Sciascia per l’amico che recita quasi a memento o forse ad augurio per le battaglie di giustizia «che non sia un’illusione».