Leopardi, come peraltro gli altri nostri classici letterari, è autore quasi inaccostabile. Distante dalla modernità eppure all’origine dei dilemmi della modernità, legato alle formulette apprese sui banchi di scuola, sepolto sotto il peso di una bibliografia critica sterminata. Anche per questo appare meritoria la ristampa di un libro fondamentale, che invece ci permette di accostare l’autore dello Zibaldone, rispettandone la irriducibile complessità: Il pensiero di Leopardi di Mario Rigoni (ed. La scuola di Pitagora). Bene ha fatto Rigoni, uno dei nostri maggiori e più acuti leopardisti (almeno a partire da un saggio del 1976, come ricorda nella attenta postfazione Raoul Bruni) a intitolarlo “il pensiero di Leopardi”.

Non dobbiamo infatti pensare a una lettura parziale, limitata alla produzione saggistica leopardiana. Nella tradizione italiana, ricordava Cardarelli, “ragionare” è sinonimo di “poetare”. E poi nel “Dialogo di Timandro ed Eleandro”, con cui si concludeva l’edizione del 1827 delle Operette morali, leggiamo che «se alcuno libro potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici… libri destinati a muovere l’immaginazione». Lo scrittore Eleandro, scagliandosi contro i filosofi moderni, e contro «il misero e freddo vero» che ci rende peggiori, auspica un pensiero capace di conservare lo sguardo poetico sulla realtà, fatto di immaginazione, stupore e senso del mistero.

Molte e inedite sono le piste interpretative che Rigoni suggerisce, sostenute da rigore filologico e conoscenza capillare dell’opera leopardiana, ma anche ispirate da una intelligenza a sua volta immaginativa, ariosa e da una scrittura appuntita, segretamente vicina all’aforisma (propria di uno spirito non accademico, benché entro l’accademia abbia insegnato per una vita). Limitiamoci, un po’ arbitrariamente, a due soli capitoli del libro. Anzitutto Leopardi e il marchese di Sade: una parentela sorprendente (ovviamente si sono ignorati), eppure basata su innumerevoli evidenze (spesso il “metodo” di Rigoni consiste in questo, nel rendere palese una verità che come la lettera rubata di Poe era davanti a tutti ma che nessuno vedeva). Leopardi parla come un libertino perverso di Juliette, benché lui sia alieno da qualsiasi perversione: il male è intrinseco all’ordine del mondo, in cui vi sono «animali destinati per nutrimento ad altre specie».

La natura è un mattatoio: consiste in un ciclo ininterrotto di produzione e distruzione, come recita anche l’inizio del Mahabharata induista. Sembra qui configurarsi non un ateismo ma un teismo nero, che consegna gnosticamente il mondo a un principio infernale. Dio esiste ma non è buono: anzi è l’agente di tutti i crimini dell’uomo. Ora, sottolinea Rigoni, da questa premessa comune discendono però conseguenze diametralmente opposte: l’apostolato satanico diventa in Sade estasi del delitto, apologia della violenza e dello stupro, mentre in Leopardi si traduce in una dolorosa denuncia e finalmente nell’approdo a una solidarietà universale (la “Ginestra”), che non è nietzschianamente il risentimento dei deboli contro i forti poiché – aggiungiamo noi – i “forti” propriamente non esistono (come vedremo tra un po’). A ben vedere la deduzione apparentemente coerente di Sade – sono libero di fare il male perché tanto il fine dell’universo è il male – nasconde una aporia: l’essere umano è pur sempre una parte, con i suoi limiti ben definiti, e non può identificarsi con il tutto, il quale ha ragioni imperscrutabili, che sempre ci sfuggiranno.

Poi l’altro capitolo su cui vorrei soffermarmi riguarda Leopardi filosofo politico, il quale assume la decadenza – in ciò vicino ai romantici – come spiritualizzazione, come primato dell’interiorità, della coscienza, del sapere (che elimina illusioni ed errori, unica fonte della nostra energia) e conseguente svalutazione del corpo, sconosciuta al mondo antico (Eschilo voleva essere ricordato non come autore di tragedie ma come combattente nella battaglia di Maratona). Una visione antistorica e antipolitica, che secondo Rigoni anticipa tra l’altro Carl Schmitt, anche se per Leopardi oggi il “nemico” può essere pure il compagno o il parente. Ora, l’Occidente attuale – esausto, incapace di sopportare il rischio e di battersi per qualsiasi causa, al contrario degli antichi – appare svuotato dalla cultura parassitaria del commento, e si è allontanato per sempre dalla natura. Però viene voglia di obiettare, sommessamente, a Leopardi che la natura – come lui stesso ben ci ricorda in tanti altri passi – non è solo il regno degli istinti ferini e della guerra, della sopravvivenza feroce del più forte e della legge della giungla, ma anche la misteriosa sospensione di questa stessa legge, l’irruzione della grazia, della bontà, dell’amore gratuito.

Davvero quello di Leopardi è un pensiero sempre “in movimento”, come osservò uno dei suoi più fini interpreti, Sergio Solmi: dunque inquieto, antisistematico, inafferrabile. Non appena lo si irrigidisce in una formula unilaterale si ribella e si incarica di smentirla (anche se di tutte le definizioni quella di Rigoni – “materialista romantico” – per quanto non esaustiva ci sembra la più feconda di sviluppi). Ma concludo ancora sul tema della forza e della debolezza.

Nello Zibaldone leggiamo a proposito della compassione: «Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante… ti senti intenerire da questa vista… se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza». La debolezza può essere signora della forza. Perché avviene una cosa del genere? Forse perché la forza intuisce che la debolezza contiene la verità ultima dell’umano. Quella a cui attinge non solo la vita morale, ma anche la nostra immaginazione poetica.