Editoriali
L’epica e il mito della Partita del Secolo

Sono passati cinquant’anni da quel 17 giugno del 1970 quando si giocò Italia Germania (allora dell’Ovest), semifinale dei Mondiali di calcio in Messico, e stiamo ancora a domandarci perché sia diventata La Partita e non solo del Secolo in cui si svolse, come attesta la lapide imperitura apposta allo stadio Azteca di Città del Messico.
Cosa ha fatto sì che quel match uscisse dal perimetro del calcio e si spostasse in un’altra dimensione assurgendo all’altezza dell’epica, come un’Iliade combattuta dagli eroi sul prato verde di uno stadio? E perché ci risulta difficile immaginare uno scontro nel passato e nel futuro che possa rivaleggiare con l’atmosfera incredibile che si creò in quel giorno?
Forse è il caso di partire dai fatti.
L’Italia del commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, un bonhomme fra gli spigoli di maneggi e manovre, approda alla semifinali senza avere troppo entusiasmato e con l’ambiguità di un dualismo tra due campioni appostati sulle opposte sponde del calcio milanese, il milanista Gianni Rivera e l’interista Sandro Mazzola, risolto dal ct con l’invenzione/escamotage della famosa Staffetta, il primo tempo all’attaccante nerazzurro e il secondo al Golden Boy rossonero.
Si trova di fronte il colosso del calcio mondiale, il panzer tedesco che dovrebbe frantumarla, forte di campioni come il compassato libero Franz Beckenbauer e del rapinatore del gol Gerd Müller.
Le cose si mettono subito bene per gli Azzurri che passano in vantaggio con il centravanti Boninsegna. A quel punto comincia l’assedio teutonico e l’Italietta resiste come può fino a quando, due minuti oltre il tempo regolamentare, Schnellinger, tedesco terzino che gioca nel Milan, pareggia, unico centro in quarantasette partite con la Nazionale.
Si va al riposo e si rientra con Rivera al posto di Mazzola. L’1 a 1 resiste fino al termine del secondo tempo, si va ai supplementari e comincia la sarabanda del gol. Prima Müller, poi Burgnich, terzino interista, anche lui un astemio della rete, e poi Italia in vantaggio con un contropiede chiuso da Gigi Riva, Rombo di Tuono come lo chiamava il cantore di quel calcio Gianni Brera. Ma la Germania raggiunge l’Italia ancora con Müller e il portiere Albertosi inveisce contro Rivera che sul palo non intercetta la traiettoria. Ma il Dio del calcio governa misterioso le traiettorie della palla che da Facchetti arriva a Boninsegna, fuga verso il fondo, traversone rasoterra Rivera che entra in area e di destro spiazza il portiere Maier e segna il quarto, definitivo gol. Nando Martellini, il telecronista, esulta “che meravigliosa partita.. due ore di sofferenza e gioia, l’Italia è in finale nella Coppa Rimet” (si chiamava così il torneo mondiale intitolato al Presidente della Fifa che l’aveva istituito, fino a quando il Brasile si aggiudicò definitivamente il trofeo avendo vinto tre edizioni).
Quante volte abbiamo ri-visto queste immagini, ormai assunte nell’album della memoria non solo nazionale, perché se per noi fu una vittoria, per gli spettatori del mondo quella fu l’esperienza di un Evento unico e irripetibile. Uno dei primi esempi
E allora perché? Intanto, colpisce l’alternanza implacabile delle reti. Nei supplementari il campo diventa un biliardo e a un gol fa subito seguito un altro e un altro ancora, nessuno riesce ad essere definitivo, il tempo di rimettere la palla al centro e il risultato torna in bilico, non si fa in tempo ad andare in vantaggio che si viene raggiunti. Thriller, tensione suprema, incertezza massima sul risultato finale con il countdown fatale del cronometro e .. l’ultimo gol che arriva quando deve arrivare, all’ultimo minuto con l’invenzione del piatto in controtempo di Rivera.
Un furioso colpo su colpo dove l’imponderabile della Palla raggiunge il suo climax, fra errori, arrembaggi, e soprattutto con la sensazione che non ci sia argine all’alea, siamo nel regno dell’imprevedibile e del tutto può succedere, in una sequenza che non cessa di rovesciare sorprese e colpi di scena in tempo reale.
Per l’Italia che guarda da casa è euforia allo stato puro, una trasfusione di entusiasmo energetico che riempie le strade e le piazze di tricolori e clacson impazziti. E’ un’Italia che ne ha bisogno, viene dall’autunno caldo, dall’esplosione di Piazza Fontana, dalla sparizione di Mauro De Mauro, si susseguono stanchi i governi di centro-sinistra, viene approvato lo Statuto dei Lavoratori e proprio all’inizio di giugno si svolgono le prime elezioni regionali. Il Paese sta entrando in tunnel che diventerà drammatico, anche se alla radio va in onda Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni, a Sanremo vince Chi non lavora non fa l’amore cantata da Celentano e Claudia Mori, mentre Mike Bongiorno conduce Rischiatutto. La vittoria, come mai prima. Abbatte le differenze non solo del tifo e cementa gli Italiani, tanto più contro l’armata germanica.
Quella partita è uno psico-ricostituente che riporta l’Italia ai piani più alti dopo un’attesa che dura dal secondo mondiale vinto nel 1938 e gonfia il petto di un orgoglio nazionale che, complice la guerra, si era assopito. Il calcio offre a un popolo che l’aspetta da tanto l’occasione per una rivincita.
Una felicità, peraltro, effimera perché nella finale la Nazionale appesantita dai supplementari cederà di schianto ai giocolieri del Brasile per 4 a 1, con lo strascico polemico di una staffetta che vede Valcareggi concedere a Rivera solo i sei minuti finali.
Si fa presto a scendere dagli altari alla polvere e l’accoglienza che all’aeroporto di Fiumicino i tifosi riservano non agli eroi ma ai reduci colpevoli di aver dissolto il sogno ne è la ruvida conferma. Sarà il tempo e a rendere giustizia e a far sì che partita vada a imporsi su tutto, oltre l’effimero di una delusione.
Ma Italia-Germania 4 a 3 – protagonisti e risultato in una sintesi indissolubile – va ben oltre i confini della Penisola e anche al di là delle maglie con cui venne giocata, maglie in ogni caso illustri nella storia della pedata.
Ha regalato uno spettacolo mozzafiato con un’intensità emotiva che supera l’identità di quella partita, l’estrae dalla contingenza e la trasferisce nell’epica per cui ogni gesto diventa un’impresa e, ancor più nel mito, dove una partita diventa La Partita, esemplare e irripetibile, per sempre consegnata al suo tabellino impazzito e fatale. Quando il gioco celebra la sua magia, quella che fa di un caso qui-e-ora l’irreversibile e simbolica necessità dell’Accadere.
Ben oltre il calendario che segnava il 17 giugno del 1970.
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