Questo – scrive Ciccone – è il modo con cui solitamente viene raccontata la crisi dei maschi: frustrati, disorientati, messi all’angolo e privati delle loro tradizionali attitudini, intimoriti dalla perdita di ruolo, di riferimenti per la propria identità, aggrediti da un femminismo che avrebbe “esagerato”, castrati dal confronto con una sessualità femminile disinvolta e aggressiva. Dal rancore dei padri separati alle politiche di restaurazione che vorrebbero cancellare diritti acquisiti, come il divorzio e l’aborto, passa la reazione paranoica che vede nelle donne stesse la causa della violenza maschile, dallo stupro ai femminicidi.

Il pregio del libro di Ciccone è di aver affrontato con un’analisi profonda e coraggiosa sia le difficoltà del maschile, «rimasto invisibile a se stesso» – schiacciato nel “neutro” e dentro logiche competitive -, a costruire percorsi collettivi di cambiamento, sia la possibilità di «leggere in modo diverso la nuova esperienza maschile, cercare parole per dare voce al desiderio di cambiamento degli uomini».

In realtà, “parole per dirlo” già ci sono e sono quelle di quanti, come Stefano Ciccone, già da anni nel nostro paese si interrogano sulla maschilità, partendo, come ha fatto il femminismo dalla singolarità incarnata, dall’esperienza che ognuno fa del corpo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti. È sul corpo maschile, sulle “amputazioni” che ne hanno segnato la miseria che torna insistentemente la domanda che cosa significhi l’alienazione per gli uomini, quali aspetti dell’umano, esaltati e sviliti al medesimo tempo, abbiano considerato appartenenti “per natura” all’altro sesso.

Si tratterebbe perciò di «accogliere, esprimere emozioni, prendersi cura di sé, riconoscere che nei codici di corteggiamento non c’è nulla di naturale, perché si tratta di codici costruiti storicamente e socialmente, vedere nella propria dipendenza non un fallimento, una ferita intollerabile, ma l’opportunità di nuove forme relazionali».
C’è solo una domanda, che feci a Ciccone anni fa in una conversazione per D. La Repubblica, e che ripropongo perché penso che l’uscita dalla complementarità dei ruoli e delle identità di genere debba fare i conti non solo con logiche di potere, ma anche col “sogno d’amore”, così come lo abbiamo ereditato: «Il miracolo che fa di due esseri complementari un solo essere armonioso» (Sibilla Aleramo).

Quali forme nuove può prendere l’amore quando uomini e donne non si muovono più dentro poli opposti, complementari e indispensabili l’uno all’altro? Soffermarsi sulle contraddizioni, inevitabili in questa fase di passaggio, è importante per evitare che le consapevolezze nuove restino ferme a buoni propositi o ad atti volontaristici.