Ha trasformato le immagini in strumento di denuncia sociale
L’eredità rivoluzionaria di Oliviero Toscani, non ci si può disimpegnare dalla vita: quel potere di osare per cambiare
Ha raccontato la fragilità e la forza dell’umanità con foto dure e provocatorie. La sua scomparsa impegna tutti a credere nell’arte come il mezzo della libertà
Oliviero Toscani, per questo paese, è stato tante cose: genio, creatività, visione, talvolta oltraggio. Non ho avuto l’opportunità di conoscerlo. Sono un 2003: alla mia nascita, aveva già lacerato il velo dell’ordinario, scardinato convenzioni e luoghi comuni, costringendoci a guardarci negli occhi e a riconoscerci nei volti degli ultimi. Aveva aperto una finestra su un’altra realtà: quella degli invisibili, dei fragili, di chi muore nel silenzio, lontano dalle luci del mondo.
Con immagini potenti e provocatorie – un bacio rubato tra un prete e una suora, uno slogan che diceva “Chi mi ama mi segua”, un abbraccio tra un bambino russo e uno americano – Toscani aveva già trasformato centinaia di volte la fotografia in una rivoluzione. Parlava di Aids, di razzismo, di immigrazione, di vita e di morte. Con il suo sguardo aveva osato illuminare quelle zone d’ombra dove si annidavano invisibili ingiustizie e umanità dimenticate.
Ma è troppo facile, oggi, magnificare la sua figura, dipingerne un ritratto glorioso e contribuire già a un’avvilente storicizzazione. Credo che il modo migliore per rendergli omaggio, in un giorno come questo, sia invece parlare di ciò che Toscani e la sua visione rappresentano e rappresenteranno per il futuro di ciascuno di noi. Da radicale, penso che quella sua creatività sia la chiave più efficace e innovativa per raccontare l’emancipazione, la libertà dalla tirannia dei costumi, ma anche il riflesso prezioso di uno sguardo anarchico e anticonformista, che era poi la grande connessione tra l’artista e la politica radicale. Al radicale per eccellenza, Marco Pannella, lo univa d’altra parte una sintonia inevitabile, una complicità quasi infantile, che traspare anche in quella famosa fotografia in cui Toscani – con le mani – manipolava il viso ormai colmo di rughe dell’anziano leader, lasciandovi impressa un’espressione insolitamente imbronciata, quasi “cartoonesca”.
Toscani non è mai stato un artista rassicurante, né ha mai voluto esserlo. Ha mostrato un mondo crudo, imperfetto, ingiusto, obbligandoci a riflettere su ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare. Le sue fotografie raccontavano la complessità della vita, la fragilità e la forza dell’umanità, la bellezza nascosta nei luoghi più oscuri. Ha dimostrato che il dolore non va nascosto, che la sofferenza non può essere ignorata, che la realtà, per quanto scomoda, va affrontata con coraggio. Era forse questo il carattere più scandaloso della sua opera. Ogni volta che dovrò raccontare un’idea o una battaglia, so che farò fatica a non chiedermi come l’avrebbe raccontata Toscani. È anche grazie alla sua fotografia che ho capito che non esiste azione, né tantomeno arte, che possa dirsi neutrale. Non esiste un disimpegno dalla politica, perché non ci si può disimpegnare dalla vita.
La peggiore offesa a tutto questo sarebbe smettere di credere nel potere di disturbare, di dividere, di far riflettere: il mondo non si cambia chiedendo il permesso. La mia generazione e il mondo radicale oggi perdono un grande protagonista. Tocca a noi trasformare la sua lezione in azione. Perché, come diceva lo spot del 2000 per la Lista Bonino, “Basta chiacchiere”. Mai come oggi abbiamo il dovere di cambiare, mai come oggi abbiamo il dovere di osare.
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