Deve trovarsi ancora scritto da qualche parte, fra gli atrii muscosi e i Fori cadenti, che la Corte di cassazione ha il compito di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge». Vecchia insegna annerita dal tempo, alla quale passando nessuno fa più caso. Se la ricordiamo talvolta a lezione, è immediato l’effetto di straniamento. C’è una solennità ormai fuori posto in quella frase, stridente con la realtà, che diviene parodistica quando batte sulla parola «legge».

Il capovolgimento della gerarchia delle fonti

Tutti sono avvezzi a costatare come l’organo di vertice della giurisdizione penale prescinda a piacimento dalla sintassi della legge e si comporti con noncuranza da primo artefice del diritto. Poco importa che la Cassazione, in quanto giudice, risulti a sua volta soggetta «alla legge» per chiaro dettato della Costituzione repubblicana (art. 101): chi oserebbe mai umiliarne la maestà, subordinandola al vile prodotto d’un’assemblea elettiva composta di personale screditato? Una linea di pensiero che congiunge – in maniera nient’affatto singolare – populismo politico e aristocrazia giudiziaria dell’alta magistratura. Con un capovolgimento nella gerarchia delle fonti, converrà piuttosto che sia il Parlamento a uniformarsi quanto prima alla norma vivente creata dalla Cassazione. Le riforme legislative degli ultimi decenni, difatti, hanno per lo più codificato precedenti soluzioni giurisprudenziali contra legem, anche grazie alla presenza nelle commissioni ministeriali degli stessi magistrati – piccoli Talleyrand – che le avevano promosse.

Giudice bocca della legge

Del resto a nobilitare il fenomeno è intervenuta la corrente impetuosa di studi che inneggiano compiaciuti alla postmodernità, dilettandosi a sfatare le mitologie illuministe e a schernire, tra esse, l’idea grottesca del giudice bocca della legge. Storici, filosofi e giuristi di diritto positivo, spesso desiderosi di mostrarsi à la page, hanno cominciato a ripetere la litania dell’irriducibile vaghezza delle norme, ad appellarsi alle esigenze di equità, a reclamare la necessaria aderenza dell’interprete alla concretezza dei casi, senza rendersi conto del costo che comporta per le garanzie individuali l’abbandono del vincolo al testo della legge.
Il pericolo trascurato consiste nel fatto che, prescindendo dalle norme positive, la Cassazione imprime al funzionamento e all’esito del processo una direzione e un contenuto rispondenti ai propri scopi, estranei alla volontà democratica; oppure altera le proporzioni fra i diversi interessi in gioco, così come fissate dal Parlamento, a tutto vantaggio di quello personalmente preferito. La Suprema Corte diventa, in altre parole, decisore politico senza averne la responsabilità, con l’aggravante di degradare la certezza del diritto a mera aspettativa, per i cittadini in genere e gli imputati specialmente, a che i giudici si adeguino in futuro all’indirizzo della Corte medesima.

L’estro della Cassazione

Sono infiniti gli esempi al riguardo, soprattutto nell’ambito del processo penale, dove l’estro della Cassazione si esprime con maggiore fantasia poiché, essendo i giudici direttamente tenuti all’osservanza delle regole sul rito, fatale è la tentazione di scioglierli dai limiti stringenti all’esercizio del potere.
Basterà rammentare qualcuno degli interventi creativi con cui la Cassazione ha riplasmato la disciplina processuale a propria immagine. Si pensi all’invenzione del congegno che trattiene il giudice dal dichiarare la nullità di imputazioni difettose, facendone il migliore alleato del pubblico ministero nel perfezionamento dell’atto d’accusa in udienza preliminare; oppure all’introduzione nel sistema del criterio dell’abuso del diritto, utile a sanzionare le condotte ostruzionistiche della difesa. Emblematica, poi, la sorte riservata al canone d’immediatezza nell’assunzione della prova, soffiato via dall’orizzonte processuale quando cambia in corso d’opera il giudice del dibattimento.

Ancora, viene a tema il requisito della specificità estrinseca dei motivi d’appello, concepito allo scopo di moltiplicare i casi di inammissibilità dell’impugnazione. Interi settori dell’ordinamento processuale sono ormai affrancati dal presidio delle nullità, imponendo a chi le reclama la dimostrazione d’aver subìto un pregiudizio effettivo; la stessa inutilizzabilità è declassata a vizio sanabile, a dispetto del suo rigoroso statuto legale. Guai se i giudici inferiori osassero trasgredire i comandamenti della Cassazione rimanendo fedeli al codice: la loro condotta, qualificata come atto abnorme, li esporrebbe a illecito disciplinare.
Tutte queste trovate, che nulla hanno da spartire con i margini fisiologici di discrezionalità interpretativa, la Cassazione escogita invocando con disinvoltura la ragionevole durata del processo quale valore antagonista e preminente rispetto alle forme del processo penale, prescritte dalla legge a garanzia dei diritti individuali. Un valore malinteso che, nel laboratorio della giustizia manageriale devota alle statistiche e ai flussi degli affari penali, ha partorito l’efficientismo grossolano dei recenti piani di ripresa e resilienza.
Non c’è da sperare in una inversione di rotta, se la Corte costituzionale non si disporrà a censurare il diritto vivente per violazione, in primis, del principio che vuole il giusto processo «regolato dalla legge» (art. 111), accentuando la propria autonomia, in nome dell’ispirazione illuminista della nostra Carta fondamentale, dalla cultura di cui è portatrice la Suprema Corte situata sull’altra riva del Tevere.

Daniele Negri – Professore ordinario di procedura penale

Daniele Negri

Autore