Donatella Di Pietrantonio torna in libreria con “L’età fragile” (Einaudi), un romanzo in cui a intrecciarsi sono i piani temporali e quelli geografici, il passato e il presente, una madre e una figlia, Milano e l’Abruzzo, lì dove l’oscillazione fra diversi poli si rende una bussola per decifrare la forza di resistenza, le paure, e tutta la fragilità, delle protagoniste di questa storia. Imparare il coraggio, imparare a costruirsi addosso più difese, non ha a che fare con l’età né con il crescere o l’adattarsi al mondo. Si è fragili da genitori. Si è fragili da figli.

Quando Amanda riesce a salire su un treno e a tornare nel paese d’origine da cui era scappata, un piccolo borgo di montagna accanto a Pescara, prima che l’Italia venga costretta al confinamento, a sua madre basta uno sguardo per intuire che qualcosa non va. Cosa si è spezzato in sua figlia? Lo sguardo spento, cupo, e i silenzi che si allungano. Lucia vorrebbe capire cosa è successo, intervenire per proteggere Amanda da tutte le minacce che ora la obbligano al letto fino a tardi, il lembo della coperta a nasconderle il viso. Niente doccia, niente cibo, niente parole. Sembra che sua figlia desideri soltanto scomparire. Sta scappando dalla città che, solo a pronunciarne il nome, Milano, faceva brillare i suoi occhi? Sta fuggendo dal ricordo di quella volta in cui è stata aggradita per strada, poche macchine, il buio della sera e nessun passante: Amanda si è ritrovata a terra grondante di sangue, senza cellulare e senza un soldo. Sua madre, Lucia, si chiede se sia riuscita a dare almeno qualche esame, a Milano. In fondo, cosa importa.

Sono tante le cose che non sa di quell’unica figlia che adesso le sembra un’estranea, e a cui si avvicina in punta di piedi, sempre timorosa che possa ritrarsi ancora un po’e ancora un po’ chiudersi a sé. È un filo spezzato quello su cui corre la loro unione, mentre tutt’attorno Lucia si immerge in un presente che la lascia senza forze. Il suo matrimonio è finito. Il lavoro non è quello che aveva, al tempo, desiderato. Suo padre, un tipo di montagna, un vedovo, un uomo duro e spiccio, non è una spalla su cui piangere. Ma è adesso che il romanzo di Di Pietrantonio cambia e s’allarga, concedendosi una linea che ci spinge indietro, verso il passato: gli anni in cui Lucia aveva la stessa età di sua figlia. Il male non è prerogativa delle grandi città, spesso attraversate da monadi di solitudini diverse e tutte uguali, incapaci di stemperarsi a vicenda nella vicinanza. Milano non è riuscita ad accogliere Amanda come lei sperava: si è rivelata sorda, aggressiva, avara e prepotente.

Ma il male sa flettere i propri artigli anche dentro a confini meno estesi, solo in apparenza più sicuri, come il bosco dove Lucia e la sua amica d’infanzia correvano, si nascondevano, e poi si cercavano con la bocca sporca di fragole. Sotto il Dente del lupo, su un terreno che appartiene alla sua famiglia, e su cui tanti anni prima sorgeva un campeggio con la piscina, è successo qualcosa di terribile, qualcosa che gli abitanti del paese non riescono neppure a nominare: il fatto. Lucia ha provato a rimuovere dalla testa il giorno in cui la sua amica d’infanzia, Doralice, ha visto la morte. È andata avanti, proteggendo la sua età fragile in un angolo del passato.

Ma adesso è come se passato e presente si sovrapponessero per tendere un filo ad Amanda, arrivare a lei tramite la comprensione di sé, riesumando il trauma della ferita e mettendo in luce la cicatrice. “Certi confini sono troppo sottili per una madre indecisa come io sono. Ma i più saldi tra i genitori sanno in ogni momento la verità sul da farsi?”. Al posto della verità, s’espande il dubbio. Al posto di una possibile distrazione, il ricordo vivo di quanto è stato.
Con un impianto drammaturgico tensivo quanto un giallo, attraverso uno stile più scabro dei romanzi precedenti, fervido, immediato e vibrante, Donatella Di Pietrantonio dà corpo a un coro di donne attraversate da un’antica forza, e dalla fragilità che è parte di essa, non un polo opposto ma un suo naturale complemento.