La ragione per cui la famosa foto di Donald Trump scattata da Evan Vucci dopo la sparatoria al comizio di Butler è così potente, è che sappiamo che è reale: con qualche suggerimento, l’intelligenza artificiale avrebbe potuto produrne una ancora migliore. Ma il volto sanguinante dell’ex presidente Usa, il pugno in aria di chi non si arrende e invita i suoi alla lotta – sperando di capitalizzare elettoralmente l’attentato -, la squadra del Secret Service che fa capannello intorno a lui: nessuna IA avrebbe potuto riprodurre tutto questo con la perfezione di quella foto iconica che all’indomani del tentato assassinio campeggiava sulle prime pagine di tutto il mondo.

Eppure, proprio come nessuno ha dubitato della fonte di quelle immagini che ritraggono Trump ferito, la verifica – dei fatti, delle opinioni, delle immagini – è ormai diventata la necessità fondamentale della nostra epoca: benvenuti in un mondo dove fare è meno importante di dimostrare. Ma non da ora. Il mondo dell’arte da tempo ha compreso il valore della provenienza di un’opera, tanto che non è mai bastato affermare semplicemente: “È un autentico Modigliani”. E non sono solo artisti e aziende a dover elaborare strategie per dimostrare l’autenticità di un prodotto. Oramai, si è un po’ tutti costretti a farlo: dagli studenti delle superiori che scrivono saggi per insegnanti scettici ai lavoratori da remoto, dimostrare la propria buona fede è il prezzo da pagare per conservare legittimità e fiducia.

A proposito di fiducia, secondo un gruppo di ricerca dell’Università di Oxford, nel 2020 circa 70 governi in tutto il mondo hanno costituito gruppi di disinformazione sui social media per diffondere menzogne e occultare verità. Dunque, oltre a chiederci se possiamo fidarci delle piattaforme di social media, la cui attività consiste nel vendere i nostri dati (e il nostro tempo) agli inserzionisti e dubitare della validità degli algoritmi che calcolano chi dovrebbe essere preso in considerazione per un lavoro o un prestito, dovremmo fare qualcosa di più come cittadini. Il francescano Paolo Benanti – esperto di etica, bioetica ed etica delle tecnologie – già consigliere del Papa su queste questioni e alla guida della Commissione sull’intelligenza artificiale per l’informazione insediata presso la Presidenza del Consiglio, questa settimana ha scritto sul Sole 24 Ore circa la necessità di un controllo etico delle IA generative, se non vogliamo che distruggano la stessa convivenza civile.

Ma ogni rivoluzione tecnologica, dalla carta stampata a internet, ha dischiuso nuove porte a una marea di disinformazione. Di fatto, è diventato sempre più difficile separare la verità dalla verità modificata: quel che dicono i politici in un video può essere alterato ed è possibile modificare una foto in modo da rimpiazzare facce o corpi. Al rischio di questa potenziale falsificazione della realtà, sempre in agguato, Benanti risponde sollevando la necessità di fantomatici “guardrail etici”. Ma siamo proprio sicuri che la prospettiva di una “algoretica” che ci salvi dai rischi dell’IA, sia realistica e non, piuttosto, un wishful thinking comprensibile ma concretamente inutile? Quale alternativa? Diventare cittadini digitali, attenti e critici. “Se diventano intelligenti le case, le fabbriche e le città, perché non dovrebbero farlo le persone?”, si chiede Gerd Gigerenzer nel suo saggio “Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi”.

Il mondo digitale ha reso accessibile e a buon mercato la disinformazione più di quanto fosse mai accaduto. Ma offre anche strumenti che consentono di scoprire l’affidabilità delle persone e delle fonti: chiamatelo factchecking. Oppure “lettura laterale” di una fonte su Internet, che poi è una delle regole intelligenti per valutarne l’affidabilità. Ma prima ancora della verifica delle fonti, da molti anni si sa benissimo dove si dovrebbe andare a parare: lo sa chi ci governa, lo sa la scuola e lo sanno i cittadini. I governi versano milioni per equipaggiare gli studenti di strumenti digitali, dai tablet alle lavagne luminose interattive. Ma altrettanto importante sarebbe investire in un curriculum generale che educhi a restare intelligenti – dunque, critici – in un mondo intelligente.

Pochi governi ne hanno compreso l’importanza finora. E desta scarsa sorpresa che la Finlandia – che si posiziona sistematicamente come uno dei migliori paesi del mondo riguardo alla felicità, alla giustizia sociale e all’uguaglianza di genere, e le cui scuole eccellono costantemente nei test internazionali di matematica, scienze e abilità linguistiche – sia anche all’avanguardia nell’insegnare agli studenti a distinguere i fatti dalle fake, la pseudoscienza dalla scienza e le chiacchiere dall’informazione. Ma apprendere a scuola a diventare digitalmente esperti non dovrebbe essere confinato alla terra dei felici ed egualitari finlandesi. Lo diceva l’antropologa Usa, Margaret Mead, che “bisogna insegnare ai bambini a pensare, non a cosa pensare”. Era il 1928.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi